Fino al 1992 era la più importante dell’isola. Poi la chiusura, una bonifica fallita, l’idea di usarla per stoccare rifiuti radioattivi. Una vicenda oscura tappezzata di omicidi, inquinamento e malattie

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Gli ultimi tre operatori della guardia forestale rimasti a fare da guardiani alla “miniera del mistero” non hanno né il coraggio né la voglia di oltrepassare quella catena che delimita l’ingresso. La miniera di Pasquasia, nel cuore di Enna, è per loro soltanto un mostro di ferro e amianto. Giuseppe a breve andrà in pensione ma negli ultimi anni sta vivendo un incubo: «Possono mettere la videosorveglianza ma ci tengono qui», dice, «prima eravamo dieci e ci pagavano gli straordinari. Adesso siamo rimasti in tre, chiediamo il trasferimento ma nessuno ci vuole ascoltare. Noi abbiamo paura a dormire qui».

Basso e robusto, lo sguardo ormai rassegnato, Giuseppe chiede perché dalla Forestale, dove sono lavoratori a tempo indeterminato, loro sono gli unici a essere costretti a fare la guardia a quel mostro. La loro attività più che un lavoro sembra una pena da espiare: tre persone a fare da guardia a un territorio vasto come un piccolo paese (70 ettari) dove lavoravano 1.200 operai (tra cui diversi mafiosi) fino al 1992, anno della discussa chiusura. «Siamo in una zona ventosa e ci fanno stare qui tra le fibre di amianto, al prezzo della nostra salute per pochi euro», racconta Gaetano Lunetta, altro operatore dell’Irf costretto a dormire vicino all’ex miniera di sali potassici. «Noi ci siamo rivolti a un avvocato per essere trasferiti ma nessuno ci ascolta».
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Per loro quel posto odiato, da poco dissequestrato, è la pagina nera della loro vita mentre rappresenta da tempo ricettacolo di affari illeciti. Anche l’ultimo grande finanziamento di denaro pubblico è stato sprecato: la bonifica di Pasquasia, partita nel 2013 e interrottasi nel 2017, è infatti diventata oggetto di un’inchiesta che ha portato a 32 indagati. Otto milioni per smaltire l’amianto che invece è rimasto a fare da cornice alla più importante industria della Sicilia. Migliaia e migliaia di sacchi contenenti lastre di amianto “eternit” ai lati del percorso che porta ai grandi capannoni, un rettilineo grigio di morte: i sacchi bianchi ormai squarciati dalla forza degli agenti atmosferici e dalla natura mostrano il contenuto che ad ogni folata di vento si disperde nell’aria.

Quell’amianto, dimostrò l’indagine, non era stato trattato con l’idonea vernice isolante, con il benestare di funzionari corrotti e di Cosa Nostra che, dopo aver lavorato negli anni dentro la miniera, sarebbe riuscita anche ad accaparrarsi alcuni lavori correlati alle bonifiche. Tra mafia, intrecci politici e affari internazionali, già durante l’attività condotta dalla società Italkali (che possiede altre miniere in Sicilia) la cava di sali potassici di Pasquasia faceva parlare di sé.

Nel 1988, poco prima della chiusura, l’Enea (al tempo ente nazionale energia) ha visto che quella miniera che produceva in 24 ore anche 1.200 tonnellate di sali potassici (Kainite), si prestava bene, grazie all’isolamento che all’interno creava l’argilla, ad accogliere rifiuti che non possono essere smaltiti in altro modo se non depositati nelle viscere della terra. I test interessarono anche rifiuti radioattivi, ma a questo esperimento, secondo chi ha lavorato in quella miniera, non seguì nessun deposito di “scorie radioattive”.

Nella Sicilia prima abusata e poi abbandonata, ancora oggi si parla di rifiuti nucleari, con l’individuazione di quattro siti per lo smaltimento, tra cui uno nella provincia di Caltanissetta, poco distante. Se oggi la scelta di quei siti è visibile da tutti, cosa è accaduto in quegli anni a Pasquasia resta un mistero: «Se io avessi saputo che in quella miniera stoccavano rifiuti radioattivi sarei subito andato via», dice uno degli ultimi lavoratori della miniera che ben conosce il pozzo usato per i test. «Le prove sono state fatte e si è anche arrivati a seppellire una barra di uranio, ben sigillata in contenitori enormi, ma quegli esperimenti non hanno avuto seguito».

L’affare però avrebbe fatto gola a molti, anche alla mafia che di quella miniera era colonna: a lavorare per la ditta Milazzo, una delle aziende che era autorizzata a muoversi dentro la più importante cava mineraria siciliana c’era infatti Leonardo Messina, mafioso di San Cataldo e poi pentito di mafia. Fu il primo ad avviare i dubbi delle “scorie nucleari” all’interno di Pasquasia, dando inizio al sospetto che si protrae ancora oggi. Le sue confessioni furono fatte prima al giudice Paolo Borsellino, due giorni prima della sua morte, poi continuarono negli anni fino a pochi mesi fa, quando, dopo aver pagato il suo debito con la giustizia, è diventato irreperibile.
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Lui fu il primo infatti, nelle audizioni parlamentari dell’Operazione Leopardo, a parlare di rifiuti tossici nella miniera. Ulteriori indagini e interrogazioni parlamentari però non hanno portato a nulla. Chi lavorava a stretto contatto con “Narduzzu” Messina però oggi è disposto a svelare l’arcano, seppur in maniera anonima: «Messina diceva che sarebbe stato un grande affare per Enna e per gli altri paesi della provincia il business dei rifiuti tossici e delle scorie», dice chi ha conosciuto il collaboratore di giustizia nella sua attività a Pasquasia, «ma i rifiuti non sono mai stati interrati lì, anzi come si diceva al tempo dei lavori quella miniera è un capro espiatorio per distogliere l’attenzione dalle altre zone».

L’importante rivelazione suggerisce anche altro: «I rifiuti andrebbero quindi cercati altrove, o nei terreni circostanti o nelle altre miniere siciliane, come quella di Bosco, a San Cataldo». L’altra cava si trova in provincia di Caltanissetta e anch’essa è sotto sequestro per disastro ambientale (il processo è partito, dopo ben sette anni di attesa, soltanto nel 2019). Anche questa rappresenta un altro “mistero siciliano”: qui però non sono stati mai trovati rifiuti tossici, nonostante siano state ritrovate le bolle di accompagnamento di rifiuti ospedalieri in una cascina che si trova a pochi passi dalla miniera.

Se dei rifiuti non c’è certezza, nonostante interrogazioni parlamentari (presentata dall’allora deputato Giuseppe Scozzari) e dichiarazioni del boss Messina, la certezza è che in quei paesi si muore di tumore: nel 1997 uno studio epidemiologico del dottor Maurizio Cammarata, allora primario di oncologia, rilevò come i dati nella provincia di Enna, priva di industrie, fossero il 20 per cento superiori a quelli dell’anno precedente. L’indagine non continuò: secondo il registro tumori (fermo al 2012) integrato con Messina e Catania, i numeri erano nella media del tasso relativo all’intera nazione.

Nel computo dei numeri del registro tumori, però, non sono comprese molte morti, archiviate come semplice “arresto cardiaco”, che però rientrerebbero nei casi di cancro. Un lavoro più approfondito è stato fatto invece sul fronte nisseno (Pasquasia è a 22 chilometri da Caltanissetta) dove già il registro tumori attesta un’incidenza tumorale superiore a quella della vicina Gela (sede del polo petrolchimico ormai dismesso).

Per diverse coincidenze, però, alla miniera di Pasquasia e al suo “mistero” sono legate diverse morti. Tra gli ultimi a interessarsi alla vicenda, oltre a Paolo Borsellino, ucciso due giorni dopo le rivelazioni del pentito Messina, ci fu il giornalista Pippo Fava (assassinato nel 1984) che ancor prima del giudice cercava, tra le altre cose, di far luce sul giro di miliardi legati all’estrazione dei sali potassici. Estrazione poi finita in mani private con l’avvento dell’azienda Italkali, società che, insieme ad enti pubblici divenuti poi “carrozzoni”, ha controllato la miniera fino alla sua chiusura, che non ha mai avuto una spiegazione ufficiale.

L’ultimo ad essere ucciso, nel 2010, è stato Vincenzo Fragalà, avvocato e parlamentare di Alleanza Nazionale: le prime indagini, poi archiviate, seguivano la pista di Pasquasia, ma sono state smentite dagli arresti di sette persone legate ad altri filoni di Cosa nostra. Che oltre ad essere una miniera di sali potassici, Pasquasia fosse anche una miniera di soldi (sporchi) lo rivela anche un altro dei minatori, attivo nel sindacato: «L’ultimo finanziamento prima della chiusura è stato di 24 miliardi di lire, per comprare mezzi e altro. In seguito la miniera chiuse i battenti».

Quei soldi però vennero spesi e una parte dei mezzi acquistati (di alta tecnologia per l’epoca) furono seppelliti dentro le miniere, dove si troverebbero tuttora. «Poi», racconta ancora uno dei minatori, «tutti gli archivi e i registri contabili furono dati alle fiamme». Tutto finì in fumo, così come le indagini che ad oggi non hanno portato a nulla: solo quella sulla bonifica ha rivelato che gli interessi sul grande mostro di ferro e amianto sono ancora forti.

Ad alimentare il mistero è arrivata la secretazione degli atti relativi alla miniera e ai test da parte del Governo Prodi (2008), quando il sito risultò citato anche in diversi documenti americani riguardanti lo stoccaggio dei rifiuti relativi al combustibile nucleare. Tra chi lotta da anni per riuscire a venire a capo del “mistero Pasquasia” c’è Leandro Janni, presidente regionale dell’associazione Italia Nostra, che dopo tante battaglie a difesa dell’ambiente conosce bene quello che era una volta il cuore pulsante della provincia Ennese.

«Era il centro dell’industria siciliana, è stato trasformato nella discarica d’Italia», dice quasi rassegnato. «La Sicilia interna è ormai la pattumiera della penisola. Con Italia Nostra, dopo diverse segnalazioni, abbiamo provato a rilevare con un geiger la presenza di radioattività nella miniera ma abbiamo potuto sondare solo il perimetro, e non avevamo strumenti adatti a esplorare in profondità: non abbiamo trovato nulla. Se sui rifiuti nucleari ci sono dubbi», continua, «dobbiamo però preoccuparci di quello che sicuramente c’è: una quantità immane di amianto abbandonato che avvelena l’aria dei paesi vicini, oltre ai residui di oli dielettrici che ancora oggi inquinano le falde acquifere del fiume Imera-Salso».

Se infatti quello che nasconde la miniera nel sottosuolo resta un mistero, bastano a far paura le innumerevoli tonnellate di amianto abbandonate in cima alla montagna: milioni di lastre mai bonificate lasciate ad ammorbare l’aria di quella che un tempo era una macchia verde nel cuore della Sicilia.