Un documentario ritrovato ci fa tornare nel Teatro Goldoni durante il congresso socialista che portò alla scissione. E Mario Tronti spiega: “La rivoluzione d'ottobre è stato il mito di fondazione del nuovo partito“

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Certo che me lo ricordo, l’anniversario... «Me lo ricordo nella sezione romana di Garbatella dove sono cresciuto; ricordo i miei maestri: gli autoferrotranvieri, gli operai del gas, gli elettrici. Non sono diventato comunista leggendo Lenin, ma seguendo i loro insegnamenti. L’anniversario era un’apologia del socialismo, una festa popolare, una cerimonia religiosa dedicata al sol dell’avvenire». Il filosofo Mario Tronti, 90 anni tra qualche mese molti dei quali spesi nella militanza comunista, ricorda con la sua voce profonda e l’eloquio affilato un centenario che non sarà festeggiato, quello della fondazione del Pci, a Livorno, il 21 gennaio del 1921. Il 70esimo, nel 1991, coincise con il suo scioglimento; mentre nel 1992, in piena tangentopoli, non fu celebrato il centenario della fondazione del Psi, dalle cui costole il Pci era nato. Una sinistra apolide, senza data e luogo di nascita: non celebra più il comunismo, non è diventata socialista, si aggira per il mondo in attesa di una terza via che finora nessuno ha mostrato o di una nuova illusione palingenetica.

Scrutando l’alba di quell’anno tragico Tronti vede ben più che la fondazione di un partito, vi scorge riflettersi l’aura del Mito fondante: il rovesciamento della storia, la vittoria finalmente di Spartaco e dei suoi schiavi: «Per i comunisti il Mito è molto importante. La tradizione socialista era diventata scientista ed evoluzionista quindi non ne aveva più bisogno, perché l’avvento del socialismo era inevitabile. Bastava attendere. E invece il Novecento ci mostra non solo il volto della ragione, ma l’irruzione di fattori emotivi, di appartenenze, credenze, insorgenze repentine. Le masse hanno bisogno del mito per poter assumere autonomia e identità e di un partito per mobilitarsi. Il Pci non sarebbe mai esistito e durato tanto a lungo senza il mito dell’Urss e, soprattutto, di Stalin che lo interpretava. Mio padre teneva il ritratto di Stalin sopra il letto, al posto della Madonna. Il modo miserabile in cui è stata condotta al termine l’Urss soprattutto da Gorbaciov è stato tragico: il crollo del socialismo è stato interpretato come la conferma che non si può uscire dal capitalismo».
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Ecco, stiamo parlando dell’inizio e già precipitiamo nella fine, quasi che essa sia già scritta in quell’inizio che fu anche, per il tempo, un gigantesco evento mediatico cui non poteva mancare quella strabiliante invenzione dei fratelli Lumière nata quasi insieme a quel partito che sta andando a congresso. Anche di questo è fatto l’Ottocento che se ne va e, svanita l’illusione della Belle Époque, diventa il grande e terribile novecento, dominato dal fascino della potenza tecnica. Dunque, cinepresa puntata sul teatro Goldoni di Livorno. Grazie allo straordinario lavoro della cineteca di Bologna che ha restaurato un lungo filmato originale muto possiamo essere anche noi lì. «Per me il congresso è stato il più grande e si è svolto, malgrado i dissidi, con risultati ottimi», dice l’onorevole Francesco Barberis al termine dei lavori: colpisce , ovviamente con il senno del poi, l’inconsapevolezza dell’avvicinarsi non del Sol dell’Avvenire, ma di una tragica sconfitta. «È stupefacente leggere la cronaca stenografica dei giorni di Livorno per capire quanto poco sia cosciente la coscienza del pericolo, la percezione della tragedia che sta per imprigionare l’Italia», scrive Ezio Mauro nel suo bel libro “La dannazione”, Feltrinelli, dedicato, appunto, alla scissione di Livorno.
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Ecco la folla dei congressisti: decine di uomini baffuti e barbuti, intabarrati nei loro pastrani, cappotti, sciarpe, cappelli per lo più a tesa larga, cravatte lunghe, cravatte a farfalla, le donne sempre col cappellino, alcuni ragazzi col cappello a visiera e la mantellina degli orfanotrofi. «Fumano tutti, i maschi hanno tutti il cappello e il film è muto. Di lì a poco sarebbe stato il fascismo a fare della riproduzione sonora un potentissimo strumento di propaganda», spiega Gianluca Farinelli, direttore della Cineteca di Bologna che sta preparando per gennaio una rassegna (in modalità covid) sul cinema comunista tra cui brilla anche il restauro della “Cosa” di Nanni Moretti, girato durante lo scioglimento del Pci. «Abbiamo recuperato il film grazie a Cecilia Mongini, una grande pioniera del documentario italiano. Stiamo ancora facendo ricerche sulle origini, ma probabilmente è un documento di partito. Lo si può dedurre dal fatto che è molto pluralista, sono rappresentate tutte le anime e tutte le posizioni, tanto da farlo somigliare ai “panini” dei nostri Tg. Colpisce anche quella conclusione un po’ grottesca in cui non si fa alcun cenno alla scissione sancita dal congresso».

«Il contesto è dominato dalla guerra e dalla rivoluzione d’ottobre. Sono questi i due fattori che scatenano la scissione: negare questo legame di ferro tra rivoluzione sovietica e nascita del Pci sarebbe come essere cattolici e negare l’esistenza del peccato originale», spiega Marcello Flores, autore con Giovanni Gozzini di un volume di prossima uscita per Laterza, “L’aria della rivoluzione”. Sostiene Tronti: «Fascismo e Comunismo nascono entrambi in quel magma incandescente. Siamo in quello stato d’eccezione nel quale conta il salto, la volontà politica: questo è il vero insegnamento dell’ottobre e di Lenin. In questo senso la scissione di Livorno è inevitabile e necessaria».

Nel bianco e nero un po’ nebbioso della pellicola sgranata che procede a scatti balza agli occhi anche una differenza estetica, per così dire . Ecco Filippo Turati, il Grande Vecchio del socialismo italiano, barba risorgimentale e cravattone a farfalla; ecco il capo della frazione comunista, “Ing. Amadeo Bordiga”, come recita la didascalia, giovane, sbarbato, con indosso abiti più moderni; ecco il quadretto familiare dell’on. Treves e famiglia, impacciati davanti alla cinepresa; ecco Umberto Terracini, anche lui senza barba e elegante.

Anche dal look, come diremmo oggi, spicca una differenza quasi antropologica: il Nuovo contro il Vecchio: vecchie barbe risorgimentali contro giovani sbarbati, abiti ottocenteschi contro abiti più sobri e moderni. Ma non è solo apparenza. I capi della frazione comunista - il napoletano Amadeo Bordiga è il leader, poi ci sono Umberto Terracini, e Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti dell’Ordine Nuovo di Torino, fortemente segnati dal movimento dei consigli di fabbrica «sono giovani intellettuali che si sono formati in quei primi anni del secolo quando nuove correnti di pensiero confutano radicalmente la concezione evoluzionista tipica del riformismo socialista. I leader protagonisti di quel passaggio», spiega Flores, «però sono due: Turati e Bordiga. Il primo è il grande vecchio del socialismo e del parlamento italiano, ha rinunciato all’idea della rivoluzione e pensa che bisogna rischiare di andare al governo per realizzare gli ideali socialisti. È autorevole, ma non ascoltato. Bordiga invece è il giovane capo della frazione più intransigente dei comunisti, che predica l’astensionismo elettorale. La sua è una visione totalmente astratta, puramente dottrinaria. Basta fondare il partito comunista e le masse lo seguiranno sulla via della rivoluzione, sbocco ineluttabile della situazione mondiale. Gramsci partecipa al congresso ma non è protagonista, Togliatti è rimasto a Torino».

Ma era messo davvero così male nel 1921 quel partito del quale nel 1917 Gramsci scriveva: «Il socialismo è diventato la coscienza unitaria del popolo italiano. Il Partito socialista è l’immagine sensibile di questa unità, di questa coscienza, di questo nuovo mondo»? Rientrando nel Teatro Goldoni di Livorno, quattro anni dopo, vediamo un partito ancora molto forte, con oltre 100.000 iscritti (nelle elezioni che si terranno dopo il congresso, malgrado la scissione conquisterà circa 150 deputati mentre il Pd’CI si rivelerà una piccola minoranza) e tra i sindacati. «Una rivoluzione tra il 1919 e il 1920 è già compiuta», spiega Francesco Giasi, direttore della Fondazione Gramsci e curatore di un volume collettaneo sul centenario di Livorno per Einaudi e della monumentale e imperdibile nuova edizione delle lettere dal carcere del leader comunista. «Il socialismo si insedia nei Comuni e nelle Province come mai era accaduto in precedenza. Accanto ai proclami c’è la forza reale. La potenza acquisita dal riformismo socialista italiano, mentre il partito si proclama rivoluzionario. Espellere i riformisti non significava colpire soltanto Modigliani, Turati e Treves».

La rivoluzione d’ottobre però cambia tutto: la necessità di difendere la rivoluzione è un dovere del proletariato mondiale. «L’unico modo per difendere la rivoluzione russa era fare la rivoluzione anche in occidente», spiega Tronti. Le esitazioni, il gradualismo, il pragmatismo dei riformisti sono il nemico principale, mentre i massimalisti che condividono la svolta comunista, guidati da Serrati, sono maggioritari ma indecisi a tutto (questo è il giudizio della frazione comunista).

Fuori da quel teatro, i soldati tornati dalla guerra, feriti, mutilati, disperati, dimenticati da tutti, i piccolo borghesi frustrati, (come raccontato da Antonio Scurati nel suo “M”) divengono la base di massa del fascismo, fondato da Benito Mussolini, ex-direttore de L’Avanti, l’organo del Psi, con cui ha rotto perché a favore dell’intervento in guerra, mentre il Partito Socialista non riesce a dare uno sbocco politico al biennio rosso del 19-20 e all’occupazione delle fabbriche, che ha comunque sollevato la paura della borghesia: «Facciamo come la Russia» è il sogno dei proletari, l’incubo dei borghesi, che terrorizzati si affidano alle squadracce fasciste. Di tutto questo nel congresso non c’è eco.

Aggiunge Giasi: «I primi due anni di vita del Pci sono cruciali per la storia italiana. Non sono una parentesi. È allora che si determina la sconfitta di socialisti e comunisti». Di qui la riflessione gramsciana: «La scissione di Livorno (il distacco della maggioranza del proletariato italiano dall’Internazionale comunista) è stata senza dubbio il più grande trionfo della reazione», scrive nel 1924. Nel 1926 al congresso di Lione vince Gramsci emarginando Bordiga, Serrati lascia il Psi e aderisce al partito. «Quella del 1926 è una vera e propria rifondazione del comunismo italiano. Il 1921 finisce a Lione». spiega Giasi.