Il ricovero al Niguarda a gennaio per un'altra malattia. L'emergenza virus. Il trasferimento alla casa di cura. I tamponi sbagliati, le condizioni di degenza assurde, i silenzi della direzione sanitaria. Una lettrice racconta e denuncia

29 gennaio 2020
“Ciao scusami nn esco sono stata malissimo e tuttora addominali e spalle”
Dovevo accompagnare mia madre al mercato, con la quotidiana colazione al bar, a Bresso. Io sempre impaziente perché lei, con la sua stampella, camminava lentissima. Ed io ritardavo l'inizio della mia giornata lavorativa in studio. Quel mercoledì però sono arrivati dolori improvvisi, sembravano tipici dell'influenza del momento. Il vomito alle 5 di mattina e quei dolori addominali e il suo lamentarsi muto. Il medico di famiglia, lungimirante, ci ha mandate al pronto soccorso: meglio approfondire. Al Niguarda, perché da sempre, garanzia di miglior cura. Garanzia di salvezza. Un pronto soccorso meno affollato del solito. Impossibile non intercettare intorno a me la diffidenza delle persone verso malcapitati di nazionalità cinese che ingannavano tempo e ansia camminando avanti e indietro. La mia preoccupazione era tutta nelle cinque ore di attesa senza avere notizie di mia madre. Il Coronavirus per me non sarebbe mai stato il tema. Pancreas edematoso, disomogeneo con raccolta in prossimità della coda di 2 cm a densità sovrafluida ematica... Ricoverata per pancreatite acuta, infine. Una pancreatite necrotica emorragica, sarebbe stato specificato qualche giorno più tardi.

30 gennaio 2020 (Pronto soccorso)
“E chi l'ammazza quel mastino! Piena di morfina, almeno combatte l'ansia... Ogni tanto scrive nell'aria o pensa di dipingere uno dei suoi strofinacci. Poi ha sognato alberi sui trulli e roseti.” Per me mia madre era un'entità immortale. La osservavo dormire (e sognare) nel letto del Pronto soccorso, con una mano ancorata alla barra laterale e il cellulare stretto nell'altra. Da sempre, ha tenuto vite sotto controllo. Vigile. Organizzatrice. Sana. Tecnologica. 78 anni da poco compiuti, nessuna patologia. La prima TAC. La pancreatite diventa “molto seria”. Mi chiedevo cosa fosse una pancreatite seria. Ancora oggi resta per me una nemica semisconosciuta. Imprevedibile. Pericolosa. Anche quando 'riposa'. 16.30: Terapia Sub Intensiva. Troppo “liquido già libero.” “Bisogna vedere giorno per giorno” è stata la frase che non avrei più smesso di sentirmi ripetere da quel momento. Mia madre era improvvisamente diventata vulnerabile. Ed io ho iniziato ad avere paura.

1 febbraio 2020 (Terapia sub intensiva)
“Un'altra giornatina. Ha tanto male e non sopporta la maschera dell'ossigeno. La dottoressa dice che ci sono due complicazioni (previste). Il blocco intestinale e il liquido nei polmoni. La pancreatite è partita acuta, è un nemico tosto”. Mia madre quel sabato mi faceva notare come io avessi iniziato a darle teneramente baci solo perché fosse in “punto di vita”. Forse era vero, al di là dell'ironia. Ero con lei, avevo paura, e le mie inutili sovrastrutture stavano crollando. E quel punto di vita sarebbe diventato il limite da non oltrepassare mai.

4 febbraio 2020
“Sono arrivata e mi hanno parlato. Tutto andava bene, all'improvviso si è aggravata. Il pancreas ha deciso. L'hanno addormentata, le bucano lo stomaco per tirare via una formazione di liquido. Poi la intubano. Poi terapia intensiva. Mi hanno parlato dolcemente con tutta la solita verità.”

Mia madre teneramente chiedeva al dottore: “Poi andrà tutto bene?” Quando il claim Andrà tutto bene era ancora lontano. La malattia si stava aggravando. Pancreatite acuta di grado severo complicata dallo sviluppo di pseudocisti pancreatica infetta. Posizionamento di una protesi trans gastrica per drenaggio endoscopico della pseudocisti e posizionamento di un sondino naso cistico. Intervento d'avanguardia. Che fortuna essere al Niguarda. Garanzia di salvezza. La pancreatite può uccidere in 24 ore. Eravamo al sesto giorno. Mi dicevano che in una forma così grave la malattia avrebbe potuto piegare mortalmente un quarantenne. Il pancreas va in necrosi, decide di morire e basta. Mia madre invece aveva già dato prova della resistenza del suo corpo, della forza che l'aveva sempre contraddistinta. Sarebbe morta al 70esimo giorno.

8 febbraio 2020 (Terapia intensiva)
“Voglio lamentarmi ancora, voglio sentire la sua ingombrante presenza... la sua premura ossessiva”
Intubazione e ventilazione meccanica per cinque giorni. Prendevo piccole pause. Perché crollavo davanti alla deformazione del volto di mia madre attraverso il dolore, davanti ad ogni emissione del suo corpo sofferente. Le aspiravo frequentemente i muchi. Mi era concesso di bagnarle la bocca. Batteva i piedi, il suo labiale ripeteva ossessivamente “Acqua”. Acqua, era diventato il suo più grande piacere vitale. Quello che la pancreatite le aveva tolto per primo. L'acqua era diventata pericolosa.

Che esperienza la Terapia intensiva. Al Niguarda. Una cura amorevole che mi sembrava prossima al Paradiso. Il ricordo prezioso più vicino al cuore che abbia avuto in tutta la storia di ospedalizzazione di mia madre. La sensazione di delicata premura andava oltre i tubi, oltre la sacca color bile, oltre le carezze bagnate ad un corpo gonfio che perdeva liquidi. L'appuntamento delle ore 14, seppur fosse un continuo “non poter prevedere cosa accadrà domani perché la situazione è complessa”, era la meta rassicurante quotidiana di questa imprevedibile battaglia. La febbre, gli antibiotici, la morfina, l'ossigeno. Gli equilibri delicati ma tempestivi. Le prospettive lunghissime di ricovero (mesi), 50% di possibilità. “La Terapia intensiva è il limite tra vita e morte, la sfida continua è intervenire su questo limite sottile. Statele vicino il più possibile”. All'Inferno si morirà scrupolosamente soli.

9 febbraio 2020 (Luna piena)
“Ennesima giornata di dolore nonostante i sedativi e gli antidolorifici. Mi hanno detto che oggi faremo un punto dell'intera situazione. Aspettano diversi risultati. Ieri sera mia madre ha voluto baciarmi in fronte anche se non ci riusciva con le labbra tutte fasciate dal nastro. Ha voluto vedere anche Andrea per dirgli grazie, piangendo con gli occhi pieni di paura”. Credevo stesse morendo. Perché si dice che una persona la sente, quando è accanto, la morte. E c'era la Luna piena. Ma sarebbe stato il plenilunio di aprile a portarla via, due mesi dopo. In una notte in cui non avrei avvertito la sua paura, solo la mia.

12 febbraio 2020 (Terapia sub intensiva)
“Maria Felicia parla, le hanno tolto il tubo in bocca”. Estubazione. Sveglia, lucida. Miglioramenti notevoli, ripresa della funzionalità degli organi. Via i sedativi, attenuazione del dolore, respirazione più regolare. Profilo settico persistente, stabile senza fasi di shock. Riscontro microbiologico di positività per Streptococco gallolyticus + MRSA in liquido di pseudocisti. Ma lei aveva superato il rischio di morte. Ed era tornata in Terapia subintensiva. Un viaggio di ritorno alla vita, passando per i successivi reparti, pensavo. Se fosse stata davvero invincibile come avevo sempre creduto? E mio padre, un cardiopatico di 83 anni che non aveva mai avuto il coraggio di vederla in quelle condizioni per più di qualche minuto, aveva deciso di portarle una rosa per San Valentino, forse la prima in cinquantadue anni di matrimonio. Un gesto che mi aveva quasi imbarazzata. Forse perché, passata la paura, stavo riconquistando una zona di comfort in cui non smettere di essere 'figlia adolescente' dei miei genitori.

17 febbraio 2020 (Medicina alta intensità)
Spostamenti progressivi, sempre in “alte intensità di cura”. Da questo reparto in avanti, mia madre sarebbe stata messa in “isolamento tecnico” perché positiva al cosiddetto Acinetobacter da tampone rettale e faringeo. Legato all'ospedalizzazione del paziente, il batterio richiedeva protezioni (mascherina, camice, calzari, guanti) per ciascun visitatore, per ciascun operatore sanitario. Non ci eravamo mai 'protetti' sino ad allora. Nessuno in ospedale ci aveva parlato di questo batterio contratto e dei suoi rischi. Non si parlava ancora di distanze di sicurezza, ma ero già costretta a tenermi distante da mia madre per proteggermi da un'infezione da contatto. Da qui, non avrebbe più sentito il calore della mia mano accarezzarla, le mie labbra baciarla. Solo Pvc, tessuto non tessuto. Non era ancora tempo di carenza di mascherine, non era ancora tempo di psicosi da contagio. Potevo essere ancora lì ad assisterla otto, dieci e più ore al giorno. Per un sorso di acqua dalle sue mezze bottiglie fresche con cannucce colorate, per cambiarle le vaschette in cartone pressato in cui vomitare. Per tirarle su e giù lo schienale del letto in cui era immobilizzata. Per brevi massaggi. Per farle fare le prime videochiamate con l'esterno, nonostante la voce inesistente. Nonostante la stanchezza. Per raccontarle più e più volte le sue conquiste fino a quel momento. Per raccontarle quello contro cui aveva combattuto e continuava a combattere. Per evitare che suonasse più volte il campanello di allarme che teneva stretto tra le mani col terrore di essere “dimenticata” lì in stanza da sola. Nessuno si dimenticava di lei, qui. La situazione sembrava procedere stabilmente fino ai nuovi episodi di nausea, vomito biliare, vomito ematico. Nessuna tregua. Nuova emergenza. Tac, ostruzione della protesi transgastrica da materiale necrotico. Nuovo intervento d'urgenza. Prima rischiosa pulizia endoscopica. Trasfusioni. Nuovamente sopravvissuta.

Sabato 22 febbraio 2020
Indossavano tutti maschere protettive per trasferire mia madre al Pronto soccorso dal reparto, anche lei. Era la prima volta che sentivo parlare di disposizioni protettive precauzionali in ospedale per allarme COVID.

28 febbraio 2020 (Chirurgia alta intensità/Chirurgia generale oncologica e mininvasiva)
“La situazione di sua madre è molto grave. La sua patologia ha una durata media di 70/90 giorni. Se fino a qualche giorno fa eravamo positivi per la sua resistenza, per i miglioramenti in corso, ora non lo siamo più. Poteva succedere di tutto durante il primo intervento di disostruzione. Temiamo che possa cedere durante una seconda fase d'intervento. Per sua madre il baratro potrebbe aprirsi da un momento all'altro, ci dispiace”.

Queste le ultime parole ascoltate in Medicina Alta Intensità. Eppure avevo passato un'altra notte con mia madre. E l'avevo vista per la prima volta col volto sereno, seduta nel letto, senza dolore, leggere sms dal suo cellulare. Con una telefonata mi veniva comunicato un nuovo spostamento, prima in Chirurgia Alta Intensità poi in Chirurgia Generale, l'ultimo reparto del Niguarda che avrebbe curato mia madre. Un nuovo intervento. A cui resistere con la forza di sempre. 4 marzo 2020 Io continuavo ad esserci, accanto a mia madre. Allettata da quaranta giorni, l'aiutavo coi pasti, laddove con le sue mani troppo deboli e tremanti non ce la faceva ancora a mangiare in autonomia. Da programma per lei un graduale “svezzamento respiratorio”. E una lenta e graduale riabilitazione con fisiatra (non poteva in ogni caso ancora muoversi da sola). “Graduale”. Una parola chiave. Perché la sua patologia richiedeva questo: cure e monitoraggi per una ripresa graduale. Intanto, però, cambiava lo scenario, anche al Niguarda. L'agitazione del personale, le misure più restrittive. Domande di infermiere che mi chiedevano se avessi informazioni su successivi spostamenti di mia madre una volta ultimata la “procedura chirurgica”. Cresceva progressivamente anche la mia preoccupazione. Ricevevo brusche comunicazioni dalla caposala che mi mandava a seguire un corso di addestramento per alimentazione enterale, parlandomi concitatamente di “possibile dimissione, bisogno di liberare letti, suggerimento di provvedere al più presto ad una badante”. Nel frattempo, l'arrivo a casa del materiale necessario all' alimentazione domiciliare: “signora, lei deve stare calma, sono misure precauzionali che vengono attivate anticipatamente visti i tempi solitamente troppo lunghi...” Rassicurazioni su rassicurazioni da parte di una giovanissima dottoressa che mi riportava alla calma ribadendo che mia madre necessitasse di tempo per nuovi controlli, nuovi prelievi. Con l'obiettivo di sospendere la cura antibiotica e verificare che, senza quest'ultima, i valori della pancreatite sarebbero riusciti a mantenersi stabili. Intanto, in Chirurgia generale venivano trasferiti pazienti di Urologia. Mia madre, per un paio di giorni avrebbe condiviso la stanza, per essere poi nuovamente spostata in isolamento.

12 marzo 2020
“Mi hanno chiamata. La caposala e il fisiatra, pronto a firmare le dimissioni di mia madre. Non potrà andare in nessun'altra struttura di cura e riabilitazione perché nessuno in questo momento la prenderebbe. Dicono che è più sicura a casa che in ospedale. Avranno avuto nuove direttive, per forza”. E la pancreatite? Lo ripeteva ossessivamente la mia testa. Ma come sempre la dottoressa mi rassicurava. Dopo un' ulteriore tac, come “minimo” sarebbero state previste ulteriori due o tre settimane in ospedale, mi diceva. Veniva inoltrata la richiesta di assistenza domiciliare per un'infermiera ed un fisioterapista.
Data indicativa di dimissioni trasmessa nella richiesta dalla caposala: 28 marzo. Confermatomi personalmente dall'infermiera in questione: fino al 28 marzo mia madre sarebbe poi risultata regolarmente ricoverata al Niguarda. Mia madre aveva fatto i suoi primi passi assistiti lungo il corridoio. Era riuscita faticosamente a mangiare da sola. Ero orgogliosa di lei che iniziava a sentire un nuovo incoraggiamento, una nuova spinta interiore. Seppur costretta a non farle visita come da nuove disposizioni, io provavo ad essere fiduciosa, credevo in una possibile nuova fase della malattia. Speravo che lei continuasse a resistere perché la sensazione era che ci dovessimo proteggere da qualcosa che si stava muovendo più grande di noi e che avrebbe deciso per noi.

17 marzo 2020
“Entro venerdì mandano mia madre in una struttura a Milano, il Palazzolo... non ti dico che voci negative. So solo che mia madre ha ancora piccole secrezioni infette. La dottoressa dice che quelle passeranno nei mesi. E che tra sei mesi leverà la protesi. E con questo penso che non saprò più nulla. La tac abbastanza bene”.

18 marzo 2020 Istituto Palazzolo Don Gnocchi
“Signora buongiorno sono la caposala, volevo avvisarla che sua madre sta per essere trasferita all'Istituto Palazzolo. Riesce a venire qui entro le prossime due ore per prepararle la valigia e salutarla?” Non era venerdì. Era mercoledì. Nessun preavviso. Tutto molto veloce. Il Palazzolo, nessuna alternativa. Nessun interlocutore. Le parole della dottoressa nel darmi copia delle dimissioni. “Le ultime analisi di sua madre andavano abbastanza bene. Lei non ha più motivo di stare in una Chirurgia, necessita di una Medicina che qui, da noi, ora non è purtroppo disponibile. Tra un mese dovrà fare una Tac... solitamente la prenotiamo internamente noi, ma ora è impossibile perché qui è tutto bloccato.” Il Niguarda. Garanzia di salvezza. La sensazione di abbandono. Come un macigno. “Dottoressa, sinceramente: ma in cosa devo sperare adesso? Che mia madre sopravviva al Palazzolo?”. La sua fama lo precedeva. L'avevo scoperta nelle ultime ore. “La capisco, la capisco... ma non so cosa dire. Siamo tutti in una situazione drammatica” “Allora preghiamo per tutti noi visto che non sembra esserci alternativa” Mia madre non era neppure stata avvertita. Quando mi aveva vista comparire sulla porta della sua stanza aveva istintivamente sorriso di gioia, solo in un primo momento. Poi aveva capito, ed era scoppiata a piangere per la paura che tutto fosse destinato a finire male. Le avevo promesso che avremmo fatto il massimo per arrivare all'unica meta immaginabile: la guarigione. Tutto è finito nel modo peggiore.

“Eccoci. Visti così sembrano gentili. Almeno qui all'ingresso del reparto sembrano gentili...Cominciamo bene. Non trovano la cartella clinica. Il Primario ora ci ha detto che non hanno ricevuto neanche la cura per mia madre dal Niguarda”. Ero seduta sulla panchina esterna della cosiddetta “Sezione Generosa” sperando che quel nome potesse essere letto in chiave profetica per la nostra storia futura lì dentro. Pericolosa. Mia madre sembrava abbastanza tranquilla, con la sua liseuse di cotone azzurra e un sacchettino di plastica al polso perché “Mamma, non separarti mai dal tuo telefono. Deve essere sempre carico e sempre nella tua mano. Devo sapere tutto di te qui dentro”. Mia madre, 78 anni e nessuna patologia pregressa prima di questa maledetta pancreatite. Aveva una passione compulsiva per tutto ciò che fosse minimamente tecnologico. Aveva un Ipad e un Iphone 8 che le avevo portato da poco tempo in ospedale prevedendo la chiusura alle visite esterne. Dal Niguarda negli ultimi giorni mi fotografava i piatti aperti di cibo per rassicurarmi sul fatto che stesse riuscendo a mangiare da sola. Una dieta finalmente “varia”, nonostante la sua celiachia: pasta al sugo, arrosto, verdure a parte. Senza vomitare. Di certo non avrebbe avuto più bisogno dell'alimentazione via sondino. Il Primario ci accoglieva con gentilezza, commentando la “situazione clinica estremamente complessa” di mia madre. “Ma faremo il possibile. E noi qui adesso ci organizziamo per fare una videochiamata a settimana”. La videochiamata? A me importava solo sapere con certezza che avrei potuto ricevere aggiornamenti medici sull'andamento della pancreatite. Che doveva continuare ad essere monitorata.

La stanza mi faceva salire i brividi. Quel vecchio arredo di legno. Come gestiranno qui dentro la malattia? (I monitor neppure esisteranno. Ma che Medicina è?) Sul davanzale sporco della finestra accanto a quella di mia madre osservavo diverse arance posizionate fuori dai vetri chiusi. Sembrava l'immagine simbolica di un tentativo di fuga. Perché delle arance, lì? Perché mia madre, lì? Perché il Niguarda aveva tradito il patto di fiducia con quel trasferimento? Salutavo mia madre rassicurandola. La realtà è che la paura mi stava divorando. La visione del buio. La lucidità di tenere sotto controllo la situazione. Il bisogno di un'alternativa. Inesistente.

19 marzo 2020
“Dio come sto male Daniela, continuo con questo vomito, non ce la faccio più, non ce la faccio più” “Io però domani mattina Daniela chiedo bene al dottore se sono qui per curarmi o è un deposito e basta perché non posso andare avanti così credimi” “Comunque non mi stanno facendo niente, niente di niente. Io non vedo nessuno. Sono qui a fare numero” “Non ho nessuna speranza, sono al termine, non ce la faccio più, non so fino a quando potrò durare”

Eravamo al secondo giorno. Al terzo giorno una schermografia, tamponi per i suoi batteri da ospedalizzazione. I numeri interni dell'Istituto Palazzolo non rispondevano. Silenzio. Perenne. Una prigione. Ero riuscita a risalire al Primario di Medicina, unico referente in carne ed ossa incontrato in quel posto. Con la gentile richiesta di mettersi in contatto con me o ancora meglio col nostro Medico di famiglia che, in mezzo alle difficoltà del momento, ha sempre chiesto (e ricevuto) costantemente informazioni cliniche di mia madre ai dottori del Niguarda, da gennaio in avanti. Senza abbandonarla mai. Non da eroe. Da medico che crede nel suo lavoro. Ricevere informazioni dovrebbe essere un diritto. Diritto. Ma il cattivo Covid sembra aver cancellato i diritti, le responsabilità. Ha investito impropriamente di eroismo anche divise sporche. Ha nutrito Alibi. Il gentile Primario una telefonata al medico di famiglia la faceva, sabato 21 marzo. Comunicando la sua unica preoccupazione relativa alla possibile positività di mia madre al Coronavirus. Il Medico di famiglia incalzava su febbre e vomito. Lo sapeva bene lui che entrambi i sintomi erano stati nel ricovero pregresso al Niguarda spie di allarme dell'infezione al pancreas. Ma il gentile Primario era “praticamente certo”. Coronavirus. Lui, che sarebbe stato impegnatissimo da quel giorno in avanti, dopo l' ulteriore incarico ricevuto come Primario del nuovo reparto dedicato Covid, aperto il 17 marzo, un giorno prima dell'arrivo di mia madre al Palazzolo. Medicina, la Zona Generosa, però, era ancora ufficialmente dichiarata “zona pulita”. In una telefonata il 23 marzo mi veniva richiesta l'autorizzazione a procedere con il tampone. Poi silenzio. Fino al 26 marzo quando mi veniva comunicato l'esito: Negativo. Mia madre negativa al Covid. Nessuna risposta ai telefoni dell'Istituto Palazzolo. Nessuna. Nessuna risposta neppure dal Primario. Le uniche notizie dall'interno della struttura arrivavano dalle videochiamate con mia madre. Le avevo comprato un nuovo lungo cavo per tenere sempre carico il suo telefono. Per tenerlo tra le mani, nel letto da cui non poteva muoversi. Nessuna riabilitazione motoria qui. Un giorno le avevano fatto indossare una mascherina per tre ore (sopra al suo sondino per l'ossigeno) in attesa di due fisioterapiste mai arrivate. Inesistenti, immagino. Perché il Covid ferma tutto. Lei non ha neppure avuto più la possibilità di mettersi seduta. “Come vuoi che vada? Sono esausta, prego la morte sono al limite...” “Ti prego mamma, continua a pregare la vita, hai ancora tante cose da fare fuori da lì. Non arrenderti, tira fuori tutta la giusta rabbia che hai ma continua ad essere forte”.”Ma ti visita qualcuno?” “Ogni tanto si affaccia un dottore di turno sulla porta e mi fa delle domande”
Domande. Antibiotico. Una puntura nella pancia. Sospensione di alimentazione da sondino. Mi diceva, Lei. Continuava il silenzio. L'impossibilità di parlare al telefono con i medici. Nel frattempo mia madre, con la febbre, mi chiedeva di acquistarle tre camicie ospedaliere perché al Palazzolo ne erano sprovvisti. L'avevano 'coperta' con una maglia di pigiama da uomo, taglia piccola, (di chi sarà stato quel pigiama?) che le arrivava sopra il punto vita. Nei giorni in cui aveva la febbre, nei giorni in cui aveva chiesto di chiudere una finestra aperta da qualche parte per cui era rimasta in mezzo alla corrente fredda.

30 marzo 2020
Continui fallimentari tentativi telefonici. Nessuna risposta dal Palazzolo. Insistenti messaggi (senza risposta) al gentile Primario. Sollecitazioni alla Direzione Sanitaria. Arrivava così la chiamata, la prima dopo giorni e giorni, di un giovanissimo Dottore. Mia madre mi aveva parlato teneramente di lui e di un secondo altrettanto giovane dottore per il loro premuroso comportamento con lei. Le facevano “spontaneamente delle carezze” mi diceva. Le uniche ultime carezze. Ma la pancreatite? Le infermiere avevano riferito a mia madre che le “urine non erano belle”. E “dobbiamo spostarla in una zona pulita”. Non è stata spostata. Non esistevano più “zone pulite” nel Palazzolo infernale. Il Dottore aspettava i risultati di nuovi esami. I prelievi precedenti per lui “andavano bene”.

6 aprile 2020
Saluta la mamma e dille che le rocce non si rompono” Il messaggio del Medico di famiglia. Un custode prezioso della nostra storia. Il mio riferimento. I messaggi vocali di mia madre erano un continuo “non farcela più”. Un costante “chissà come andrà a finire, mi manchi, ti voglio bene. Ora aspetto che mi vengano a girare sull'altro fianco”. Provavo molta tenerezza nel rumore affaticato delle labbra nel mandarmi il bacio con la mano rigida a fine videochiamata. Il giovane Dottore mi chiamava per dirmi che avrebbero fatto nuovi prelievi. Un'emocoltura per verificare una possibile infezione attraverso il catetere al collo. “I valori della pancreatite vanno bene, sono negativizzati” “Davvero?? Bene! Questo mi tranquillizza. Quindi la febbre...” Da giorni episodi di elevata temperatura. Un po' di tosse. Fino ad arrivare, il 6 aprile, a 39,3. Ma se i valori della pancreatite sono negativi...

7 aprile 2020
“Signora aspettiamo nuovi risultati. Vorrei fare a sua madre un nuovo tampone perché i sintomi potrebbero essere sospetti... stamattina ha avuto un abbassamento di ossigenazione nel sangue. Ad un primo sguardo della schermografia fatta, di cui avremo i risultati domani, mi sembra di intravedere un piccolo impegno dei polmoni. Signora, parliamoci chiaro, in questo reparto su 40 pazienti, 39 sono positivi al Covid  tranne sua madre, unica negativa. E questo inizio a pensare sia impossibile... E se risultasse ancora negativa, sarebbe meglio saperla a casa che qui dentro. Ma andiamo per gradi, poi procederei confrontandomi col suo Medico di famiglia. Anticipare una Tac...”.
Casa? Ancora “a casa sarebbe più sicura che in ospedale?” Ma il Palazzolo non è mai stato concretamente un ospedale. Una condanna a morte preannunciata, così l'ho vissuta io. Non si cura una pancreatite di quella gravità a casa. Sarebbe solo uno scarico di responsabilità di morte. Doveva essere fatta una Tac. Certo. Dopo aver monitorato l'andamento dell'infezione con la sospensione degli antibiotici, dicevano al Niguarda. Quella verifica che innanzitutto Il Niguarda aveva la responsabilità di fare, penso, mentre invece decideva di dimetterla anticipatamente destinandola alla sua fine.

Ore 22.30: “Ciao, buonanotte, scusa mi è partita per sbaglio la chiamata. Se dopo ti squilla ancora il telefono non rispondere. Sto cancellando dei messaggi e con la mano tremante sbaglio ...” Ore 01:32: “Vi mi hr”. Ormai interpreto la sua scrittura. Mi diceva “Vomitato ora”. Poi un audio in cui sento solo la voce di un uomo straniero dire: “Volevo parlare con lei” Poi un tentativo di videochiamarmi. Che agitazione, ogni volta, le notti di Luna piena. Non le stavano partendo per sbaglio le chiamate. “Ho vomitato ancora sangue sto malissimo”. Messaggio scritto. “Mamma ma come sangue?” “Ho vomitato per la quarta volta sangue. Il dottore di turno mi ha dato un protettore gastrico. Domani riferisce al Dottore, dovranno fare altre analisi, anticipare forse la tac, forse portarmi in ospedale...” “ Mamma, l'obiettivo più importante di domani sarà riuscire a tornare in ospedale, a Niguarda. Ad ogni costo. È l'unica cosa davvero importante. Ora cerca di riposare. Sarai esausta. Ci riusciremo”. Addio mamma.

8 aprile 2020 (Settantesimo giorno. La morte)
Alle ore 9 ricevevo la chiamata di una Dottoressa. Mi riferiva che un'ora prima aveva trovato, ad inizio turno, mia madre in condizioni drammatiche, in un gravissimo stato emorragico. Aveva vomitato sangue e aveva perso sangue dalle feci. “Ma sua madre stanotte ha rifiutato per due volte il ricovero, all'una e mezza e alle sei”. “Cosa? Cosa sta dicendo, cosa?” “Ora proverò a stabilizzarla perché in queste condizioni é impossibile trasportarla in ambulanza, morirebbe subito” Siamo corsi all'Istituto. Dovevamo in ogni modo ottenere il trasferimento al Niguarda, disperazione. Capire cosa stesse succedendo lì. La dottoressa mi richiama: “Vedrete passare sua madre in ambulanza, diretta al Niguarda, sono riuscita a stabilizzarla. Ma perché siete venuti qui?” Cedimento emotivo. Mio, suo. Concitazione. “Non immaginate neanche cosa ho dovuto fare per stabilizzarla, io sono solo la dottoressa di turno. Ho fatto di tutto per convincere il 112 che non voleva venire a prenderla...” Lei, sì. Avrà fatto di tutto. Ma ha dovuto convincere il Pronto soccorso a ricevere mia madre. Allora con quale coraggio e quali bugie accusare una donna con un'emorragia in corso di aver “rifiutato il ricovero?”. “Me. Allora dovevate chiamare me”.

Com'è possibile che ci sia stata una notte a disposizione per “chiedere autorizzazione al ricovero” e non il tempo di evitare quell'emorragia interna? Perché non chiamare me? Mi avevano contattata per chiedermi l'autorizzazione a procedere con un Tampone di Covid. Non per intervenire d'urgenza per salvare mia madre. Un caso in cui non si dovrebbe chiedere alcun permesso. Solo intervenire tempestivamente. Dopo circa un'ora il Pronto soccorso del Niguarda ci diceva che mia madre era arrivata gravissima con valore 5,3 di Emoglobina. Non era cosciente. La stavano trasportando dagli Endoscopisti mentre moriva, in arresto cardiaco e respiratorio. Morte certa per emorragia interna, causa sanguinamento della cisti pancreatica e riversamento di sangue nello stomaco e nell'intestino. Ecco che fine aveva fatto la pancreatite. Il Palazzolo aveva specificato al Niguarda che la paziente aveva rifiutato il ricovero. Non aveva effetti personali con lei. Quando ho visto l'ambulanza passare con la sirena accesa non ho pensato alla morte in quell'istante. Ho pensato alla promessa di salvezza. Di tornare al Niguarda. Alla libertà di avercela fatta ad uscire da lì. “Al Niguarda la salveranno anche questa volta. Lei resisterà anche questa volta”. Era troppo tardi stavolta. I sintomi, i giorni precedenti, nessuna possibilità di una Tac. Di un tempestivo intervento. Di lungimiranza. Di esperienza (?).

10 aprile 2020 (Effetti personali) Dopo due giorni di insistenza chiamando i soliti maledetti numeri del Palazzolo, arrivava la telefonata della Caposala del Reparto di morte comunicando che avremmo potuto ritirare dalle ore 15 in avanti gli effetti personali di mia madre: “La cosa che più ci preme recuperare è il suo cellulare”. Dichiarandolo in questa telefonata come in quella effettuata il giorno precedente. All'ingresso, un'addetta della lavanderia ci invitava ad indossare doppi guanti e ci consegnava due doppi sacchi. “Pinto Maria Felicia / Decesso”. “Controllate bene se c'è tutto e se manca qualcosa”. “Per noi è importante verificare innanzitutto che ci sia il telefono cellulare della paziente”. Non c'era. Non c'era. L'Iphone 8 di mia madre. Non c'era. Il nostro contatto. Quello strumento diventato tanto potente per poter comunicare. Sempre stretto nella sua mano. Attaccato al suo lungo cavo come una fune a cui rimanere appesa per non precipitare nel vuoto. Sparito il cellulare. Sparito il cavo. Spariti due alimentatori. Spariti gli occhiali da vista. Sparito il quaderno nero e la penna con cui voleva esercitarsi a scrivere dopo tanto tempo. Spariti indumenti ed altri oggetti personali. La caposala chiamata a rispondere di tutto questo, rimaneva immobile davanti a me. Ripetendo come un disco rotto: “Io volevo sapere a che ora avesse sentito sua madre per l'ultima volta”. “Io sto gentilmente chiedendo infatti a che ora ha sentito sua madre per l'ultima volta”. “Io mi sento aggredita mentre invece sto con gentilezza chiedendo a che ora avesse sentito sua madre per l'ultima volta”. Le rispondevo, ogni volta. Le rispondevo che mia madre l'avevo sentita la stessa notte maledetta, vista in videochiamata alle ore 02. Doveva dirmi dove fosse quel telefono. Doveva solo tornare nel suo reparto infetto a cercare quel telefono. Lei non si spostava di un centimetro. Continuando a prendere tempo senza volermi dire o voler fare nulla di diverso. “Ricordo bene sua madre quella mattina... Appena trasportata in ospedale ho chiesto immediatamente ai miei collaboratori dove fosse il telefono. Ho cercato personalmente nel letto dove fosse ma non c'era”. Nessuna diversa posizione. Rientrata 'a cercarlo' per la pressione esercitata. Risucchiata nuovamente dall'ombra, da cui era emersa. Tentativi imbarazzati di mediazione di due impiegate amministrative, della Direttrice sanitaria già indagata. La mia denuncia in Questura. Dall'app del Servizio clienti del gestore telefonico, quel telefono è risultato attivo per altre 24 ore. Suonava, la sera del giorno del decesso. (Chi ruba, non attende che un telefono si scarichi. Penso).

16 aprile 2020 (LA PREMUROSA TELEFONATA)
Chiamata alle ore 20 circa della Caposala (sostituta caposala ha specificato) che con tono estremamente conciliante rinnovava il dispiacere per la sparizione del telefono ed altri effetti personali mettendosi a disposizione. Aggiungendo particolari non emersi la settimana precedente. Una borsa che una OS era quasi certa di aver visto andare via con l'ambulanza che aveva soccorso mia madre. Nuovi particolari, nuove contraddizioni. Alle 6 di mattina, mi riportava che gli infermieri avevano girato mia madre nel letto, cambiandole le traverse. Precedentemente, alle sei di mattina, mia madre avrebbe invece rifiutato il ricovero, per loro. “Di sicuro il Primario vi chiamerà per darvi informazioni cliniche di sua madre”. Informazioni che sarebbero state utili in vita, non a morte avvenuta.

Ho ribadito di non sapere nulla della notte di emergenza, dalle ore 02 in cui ho parlato con mia madre, alle 09 quando ho ricevuto la chiamata della dottoressa di turno. Ad oggi, un mistero. L'emergenza di quella notte. Non gestita? Come e da chi? Domande su come mia madre possa essere arrivata alla mattina dell'8 aprile in quello stato irrecuperabile. Anche infetta? Aveva ragione, la OS. Una borsa è stata ritrovata, poi, al Niguarda. Era rimasta in deposito. Un bagaglio intatto, al suo interno, come appena preparato. Sacchetti ben sigillati. Nessuna traccia, però, del telefono e del caricabatteria a cui era sempre attaccato. In quella borsa, è evidente, non ci sono mai entrati.

Tante domande, su una morte forse evitabile.




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