È la prima volta che in Italia vengono sospesi diritti e movimenti per far fronte a un virus. Tra iper informazione e ricerca di risposte, nelle aree del Nord Italia sospese dall'isolamento e dalla paura del contagio. Rita: «Almeno noi siamo in quattro, e possiamo confrontarci in casa. Penso che fatica dev'essere per le persone sole»

Lo stato d'eccezione ha un suono: è il rumore della tv accesa in sottofondo. Del flusso costante di notizie, di titoli a ripetizione sul coronavirus. È la colonna sonora nelle stanze del Nord Italia, dove la paura del contagio segna per chiunque la nuova convivenza con il virus o la sua ombra. Rita vive a Codogno da 20 anni. Ha due figli, il più grande frequenta Economia all'Università, l'altro fa uno stage. Entrambi, come il marito, sono a casa, in quarantena preventiva, insieme a lei. Stanno bene, ma sono cinturati nella zona rossa del lodigiano, «anche se i controlli sono molto inferiori di quanto dicono», insiste Rita. Questa mattina si è mossa da casa per la prima volta in quattro giorni.

«Guardo Canale 5, principalmente», racconta: «Ascolto le notizie, cerco risposte sui social, scambio messaggi con i residenti sulla pagina "Sei di Codogno se...". Sono in ansia perché mio marito deve assolutamente andare a un presidio sanitario a Casalpusterlengo e non riesco a capire se ci faranno entrare. I numeri verdi, sia quello della regione che quello nazionale, sono sempre occupati. Sul gruppo whatsapp giravano testimonianze di persone che hanno aspettato anche cinque ore al telefono per avere un'informazione». Nel flusso costante di messaggi, allarmi, domande, sui suoi gruppi girano vocali e foto, «che spesso i miei figli mi mostrano essere false: loro sono più bravi a capirlo, seguono siti specializzati. Almeno noi siamo in quattro, e possiamo confrontarci in casa. Penso che fatica dev'essere per le persone sole». Non si sono ancora dovuti inventare strategie per passare il tempo, continua, «perché tutto il nostro tempo lo dedichiamo a cercare risposte, a discutere con gli altri, a provare di capire costa sta succedendo veramente con questo virus».

La quotidianità stravolta di Rita, la sua ricerca di risposte, sono l'esempio perfetto di quella che l'Organizzazione mondiale della Sanità definisce infodemia. Ovvero «una sovrabbondanza di informazioni – alcune accurate altre no – che rende difficile alle persone trovare fonti attendibili e indicazioni affidabili quando ne hanno bisogno». Non è solo una questione di bufale o di fake news. Ma solamente di eccesso: di troppe voci, incessanti, che pur nell'eccedere, non bastano. Non servono a molto. Perché quello di cui hanno bisogno le persone, in questo momento, sono risposte concrete che in quei flussi faticano a trovare spazio: dove posso trovare i supermercati aperti; come mi comporto con il cane; quanto durerà la chiusura; come fare se si sta male per sintomi diversi dal Covid19, in un momento in cui ospedali e presidi sanitari in Lombardia sono in frontiera contro il virus. E questo riguarda le esigenze pratiche. Le domande invece più ampie, continue e incessanti anche quelle, sull'estensione, le origini, la gravità della malattia e la necessità delle drastiche misure di contenimento adottate in Italia, sono le stesse che accomunano gli abitanti di tutta Europa.

«Siamo di fronte a un problema di comunicazione fin dall'inizio», riflette Guido Bertolini, capo del laboratorio di Epidemiologia Clinica dell'Istituto Mario Negri: «Ci è stato sostanzialmente detto che la malattia fosse gravissima, ma che non ci avrebbe riguardato. Entrambe le affermazioni sono false. La patologia causata dal Covid-19 è seria, ed è un problema di sanità pubblica perché si tratta di un virus nuovo a cui non siamo preparati dal punto di vista delle difese immunitarie». I dati epidemiologici sono quelli più volti comunicati, legati ora al primo e più esteso studio pubblicato sul Chinese Journal of Epidemiology pochi giorni fa , basato sulle diagnosi di 72.314 pazienti nell'area di Hubei.L'80,9% delle infezioni risulta di lieve entità.

Sintomi come l'influenza, che passa. Il 13,8% delle infezioni è più grave. E nel4,7% dei pazienti si tratta di casi critici, come polmoniti, con sintomi quali insufficienza respiratoria, shock settico o insufficienze a più organi contemporaneamente. La mortalità indicata in Cina è del 2,3 per cento. «Malattie come Ebola, o la Sars del 2003, avevano un tasso di mortalità molto più elevato. Ciò non toglie che la letalità del nuovo conoravirus sia alta. E per questo vada assolutamente controllato il rischio che il contagio si estenda: è comprensibile a chiunque quale sarebbero le conseguenze se gli infetti diventassero milioni, come accade per l'influenza, che ha un tasso di mortalità 20 volte inferiore», spiega dall'Istituto Mario Negri Guido Bertolini: «Gli interventi di salute pubblica, per ridurre il più possibile i contatti, sono in questo senso necessari e giusti. È vero che la paura di polemiche può innescare catene di "politica difensiva", ma è bene aver preso seriamente la questione del contenimento».

Antonio è un operaio specializzato. Lavora alla Tecnim di Codogno, un'azienda che si occupa di fabbricazione di impianti di manutenzione. È a casa da venerdì. Per tutto il weekend non è uscito di casa. «Mio figlio Samuele, 14 anni, ha paura anche a uscire sul balcone. Io e mia moglie stiamo reagendo abbastanza bene, anche se non riesco a dormire per il nervosismo, e ho momenti neri, perché anche domani non potrò tornare a lavorare». Lunedì mattina Antonio è andato al supermercato del paese. Ha mandato un video della coda di carrelli. Solo le persone con la mascherina, poche per volte, venivano fatte entrare. «Ho preso il necessario e sono tornato subito a casa». Per informarsi Antonio segue i telegiornali «e leggo il sito di Codogno su Facebook. Poi facciamo lunghe conversazioni su Skype: noi qui siamo soli, i nostri familiari abitano altrove». La solitudine pesa. «Faccio lavatrici, cucino, dò una mano a mia moglie, i bambini giocano con la Xbox o vanno su YouTube».

Le giornate si allentano, si svuotano, ma la fame di risposte non può diminuire. È la prima volta che in Italia vengono sospesi diritti e movimenti per far fronte a un virus. La quarantena, lo stato d'eccezione. L'ansia che ne consegue: c'è chi l'affronta razionalmente, chi meno. I supermercati a Milano sono in gran parte pieni e sereni, ma l'immagine diventata virale è quella degli scaffali d'acqua e scatolette svuotati per le scorte. Per strada, fra bar poco frequentati e traffico diminuito, i discorsi convergono quasi esclusivamente sul coronavirus e le sue conseguenze. Sul proprio sito il ministero della Salute ricorda alle persone di rivolgersi al numero verde 800.46.23.40. In caso di dubbi o sospetti, dice di chiamare il numero apposito: 1500. Alla presenza di sintomi l'invito è a non andare assolutamente al pronto soccorso o in ospedale, ma a chiamare il 118.

Le chiamate al 118 sono in effetti esplose in questi giorni. La preoccupazione collettiva invade i dipartimenti di medicina d'urgenza. Le sale d'aspetto dei pronto soccorso, che erano diventate in Italia l'anticamera comune in caso di malattie o dolori anche lievi, sono inaccessibili. Il rapporto con la salute pubblica cambia completamente. È una delle tante pratiche sospese o travolte dall'epidemia. Per avere rassicurazioni bisogna andare altrove, ma inseguendo il virus finiamo per sapere troppo, e troppo poco al tempo stesso. L'iper rappresentazione del problema corre sul filo fra informazione e paranoia. Rassicurare, nell'eccesso di fonti, funziona a fatica. Per strada, come sui social, il bisogno di comunicare, lo scambio di solidarietà oppure di insulti, di richieste o segnalazioni, diventa velocemente il ricettacolo dell'altra epidemia; quella infodemica.