Pubblicato il rapporto di Reporters Sans Frontieres: la diffusione del virus ha avuto un ruolo determinante nell'aumento delle detenzioni. Il triste primato spetta alla Cina, seguito dal Medio Oriente. Le donne in carcere sono più del 35% rispetto allo scorso anno

Detenuta dallo scorso maggio per aver “diffuso false informazioni” sul virus, Zhang Zhan il 29 dicembre è stata condannata a quattro anni di carcere per aver “alimentato tensioni e provocato problemi”. L’ex avvocato e blogger cinese è stata ritenuta colpevole da un tribunale di Shangai per aver raccontato le prime fasi della pandemia, e criticato la sua gestione, nella città di Wuhan quando tutto iniziò, quasi un anno fa. La libertà di stampa e d’informazione sembra essere messa sempre più nel dimenticatoio in Cina, ma non solo: quello della giornalista asiatica è un destino condiviso con almeno altri 387 giornalisti in tutto il mondo secondo l’organizzazione francese Reporters Sans Frontieres (RSF).

“Quasi 400 giornalisti trascorreranno le vacanze dietro le sbarre, lontano dalle proprie famiglie e in condizioni di detenzione che a volte mettono in pericolo la loro vita”, scrive Christophe Deloire, segretario generale di RSF. I numeri diffusi nel rapporto annuale 2020 dell’associazione per la libertà di stampa, pubblicato a dicembre, confermano un trend in aumento dal 2015, con un incremento di giornalisti detenuti del 17 percento in cinque anni.
Il triste primato, secondo RSF, lo detiene proprio la Cina, con 117 giornalisti attualmente in stato di detenzione. Quasi la metà sono uiguri.

Si trovano in carcere o in campi di internamento come conseguenza della più ampia repressione in atto nella regione dello Xinjang contro la minoranza musulmana, come Qurban Mamut, l’ex direttore responsabile del Xinjiang Cultural Journalera scomparso nel novembre 2017.

Almeno una decina di giornalisti hanno subito arresti nel corso del 2020 invece per aver diffuso informazioni sulla pandemia e la sua gestione non gradite o non in linea con la narrativa di Bejing. Oltre alla 37enne Zhan, anche Chen Qiushi, Fang Bin e Li Zehua, sono detenuti dalle autorità dall'inizio dell'anno per aver coperto gli eventi di Wuhan, così come la giornalista economica di cittadinanza australiana Cheng Lei, arrestata il 14 agosto a Pechino e accusata di attività criminali che avrebbero messo a rischio la sicurezza nazionale cinese, per aver mosso critiche al governo.

Nel 2020 un ruolo notevole nel determinare un così alto numero di detenzioni lo ha avuto il Covid-19. Secondo il rapporto il numero di arresti si è quadruplicato tra i mesi di marzo e maggio 2020, all'inizio della diffusione del virus nel mondo. In Asia si è registrato il più alto numero di giornalisti privati della libertà per aver trattato argomenti legati al Covid-19, ben 65 su 135.

La pandemia però si è trasformata in un’occasione per reprimere ogni forma di libera informazione e dissenso interno anche in altre aree del mondo, come in Medio Oriente. Attualmente sono quasi 80 i giornalisti detenuti tra Arabia Saudita, Siria e Iran. Nella Repubblica Islamica quest’anno sono stati arrestati almeno una decina di reporter e due di loro si trovano ancora in carcere per aver raccontato la realtà della situazione sanitaria nel Paese. In più la liberazione della giornalista e attivista Narges Mohammadi dopo quattro anni di detenzione è stata negativamente controbilanciata dall’esecuzione di Ruhollam Zam, cronista arrestato nel 2019 in Iraq per aver riportato le critiche rivolte ai funzionari iraniani e aver coperto le proteste del 2017. Trasferito in Iran, è stato condannato a morte con una decina di capi d’accusa, tra cui spionaggio e notizie false diffuse all’estero e giustiziato il 12 dicembre. Il primo dopo 30 anni.

Anche l’Egitto ha sfruttato la situazione per accentuare ancor più il controllo sui mezzi d’informazione e silenziare le fonti non governative. Le autorità egiziane con il diffondersi del virus hanno intensificato la loro ondata di arresti e rinnovi a tempo indeterminato di custodie cautelari, portando il numero di giornalisti incarcerati a 30 secondo i dati del rapporto. Almeno tre sono stati arrestati per aver criticato la gestione degli ospedali e aver denunciato la mancanza di medici e infermieri. Il ministero dell'Interno ha vietato a familiari e avvocati di visitare le carceri dall'inizio di marzo a metà agosto. E il virus è stato fatale per il reporter 65enne Mohamed Monir, morto a
luglio scorso per aver contratto il virus nel carcere di Tora, lo stesso in cui è detenuto Patris Zaki, dove si trovava per aver assunto “posizioni antireligiose” durante un talk show su Al Jazeera.

Oltre che dal covid, l’alto numero di reporter imprigionati nel 2020 è stato influenzato dalle proteste in Bielorussia e dal riaccendersi del conflitto in Etiopia. Nel Paese europeo le proteste esplose nel mese di agosto, dopo che il presidente Aleksandr Lukashenko ha rivendicato la vittoria per il sesto mandato in un'elezione considerata da molte parti truccata, hanno portato una serie di arresti tra la popolazione e giornalisti nazionali e internazionali. Secondo il bilancio di RSF dopo il 9 agosto più di 350 addetti all’informazione, tra cui il freelance italiano Claudio Locatelli, sarebbero stati arrestati e poi rilasciati dopo il 9 agosto, mentre 23 di loro sarebbero stati sottoposti a trattamenti disumani e degradanti, tra cui pestaggi arbitrari, spogliarelli umilianti, privazioni di cibo e cure.

In Etiopia invece il riaccendersi degli scontri, sfociati poi in un conflitto armato tra l’esercito del governo centrale di Abiy Ahmed Ali e i militari indipendentisti del Tigray del Tplf hanno portato all’arresto di sei reporter in sei giorni nel solo mese di novembre. E le detenzioni proseguono: il 24 dicembre ad Addis Abeba è stato arrestato anche un cameramen della Reuters, Kumerra Gemechu, senza formulare accuse.

Un ultimo dato rende ancor peggiore il quadro. Il rapporto denuncia un aumento del 35% di giornaliste detenute rispetto allo scorso anno: sono 42, tra cui la vietnamita Pham Doan Trang, vincitrice del premio RSF per la libertà di stampa 2019. “Queste cifre confermano l'impatto della crisi sanitaria sulla professione e il fatto inaccettabile che alcuni dei nostri colleghi paghino con la loro libertà, la ricerca della verità” scrive il segretario Deloire, che aggiunge come i dati confermano “che le giornaliste donne, sempre più numerose nella professione, non sono risparmiate dalla repressione”.