L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro e una nazione fondata sullo stupro.
C’è poco da scandalizzarsi, lo è dai primordi: appena fondato il suo regno, che non smette di affascinare i fascisti di ogni epoca, Romolo ordina il ratto di femmine sabine, perché la stirpe si salvi da una repentina estinzione. Del resto, la madre del fondatore era stata stuprata a sua volta. Tre anni fa in Italia sono state denunciate 7.633 violenze su donne e bambini (e quelle mai denunciate?). Contro la vulgata che ritiene questa insostenibile situazione un’arretratezza rurale e quindi meridionale, la Lombardia guida fieramente la classifica del male.
Bisogna impegnare questa categoria: il male. Lo stupro è il male e lo è più rovinosamente dell’omicidio, perché pretende di essere un’uccisione che permane per tutta la vita. Lo stupro è al centro del nostro sistema morale.
Chi lo ha immaginato, un filosofo maschio tedesco e baffuto, si è permesso di mettere in guardia da subito l’occidente intero: guai se l’eterna fastidiosità della donna emergesse e disimparasse la sua raffinata abilità nello stimolare desideri piacevoli. Non esiste la dialettica tra servo e padrone, essa serve a mascherare quella, più autentica e inconfessabile, tra stupratore e stuprata. Poiché la virilità è un effetto collaterale dello stupro e non viceversa, l’intera questione femminile è in realtà la questione maschile: bisogna non evolvere ma distruggere il maschio, questa forma della brutalità che va fiera di se stessa. Scusatemi, scusateci tutte.