Ogni settimana sull'Espresso, un termine scelto e discusso

Nella neolingua social-politica «lo dico da papà» ormai chiosa il peggio, un po’ come «non sono razzista ma» lo precede. E con questa trappola semantica la figura del padre è diventata alibi, copertura e ipocrisia - che disastro, poveri noi papà. Allo stesso tempo, l’ossessione securitarista deforma il padre in funzione di disvalori impauriti fatti di chiusura e arrocco: quando invece ogni psicopedagogia insegna che il ruolo paterno sta proprio nel contrario, nell’infondere il coraggio dell’uscita e della scoperta, è l’ancestrale “lascia la caverna e vieni con me a caccia”. Un disastro, ?di nuovo, quindi.

D’accordo, oggi è tempo di padri discutibili e discussi, scaraventati o autoscaraventati nella rissa politica - come quelli di Renzi, Di Battista o Di Maio. Ed è anche tempo di revanscismo patriarcale, che è moneta comune di ogni sovranismo e trave portante della legge Pillon, cucita addosso ai maschi con prole a cui della prole però poco importa, basta che sia riaffermata la supremazia di genere. Intanto c’è Berlusconi che vuole ritagliarsi un ruolo da “padre nobile” - viene da chiedersi come dev’essere quello ignobile - mentre Prodi augura al partito che ha fondato di «trovare un padre».

Insomma è tutto un ruotare attorno ai padri, uno strattonarne di qui e di là il già difficile ruolo, mentre la lezione più bella viene dalla cronaca di un ignoto padre di Prato che ha riconosciuto un figlio biologicamente non suo. In fondo noi padri, privi di gravidanza, siamo tutti un po’ adottivi. Sicché per diventare davvero padri, come scriveva Dostoevskij, più che fare figli quello che conta è meritarli.