Il primo grado riconosce l'omicidio preterintenzionale da parte di due agenti. Gli esecutori del pestaggio sono stati condannati a 12 anni e il super testimone assolto dal reato più grave. Ora il prossimo passo è accertare le responsabilità di chi ha depistato per tutto questo tempo

Dieci anni per ottenere verità e giustizia. Dieci anni per chiarire una volta per tutte che Stefano Cucchi non è morto di droga. È stato ucciso della botte dei carabinieri. Due di loro sono stati condannati a 12 anni: Alessio Di Bernardo e Raffaele D'Alessandro. Il processo di primo grado che si è concluso con il riconoscimento da parte della corte del reato di omicidio preterintenzionale ha avuto la sua svolta ad aprile scorso. Quando cioè Francesco Tedesco uno dei militari presenti quella notte, per troppo tempo ostaggio del silenzio corporativo dell’Arma, durante la sua testimonianza da imputato ha deciso di dire la verità. Non ha retto più il peso della menzogna. Da quel momento si è aperto uno squarcio profondo nel muro di gomma alzato dall’Arma anche attraverso falsi ripetuti e depistaggi, per i quali si aprirà un nuovo processo. Le parole di Tedesco sono crollate come macigni sulle spalle dei suoi colleghi, forti della protezioni ricevute nei dieci anni dal pestaggio di Cucchi. L’Espresso aveva intervistato l’avvocato Eugenio Pini, che segue Tedesco e lo ha accompagnato nel percorso di “pentimento”.

«Ricordo ancora il terrore nei suoi occhi e lo sforzo nel raccontarmi quell’inconfessabile segreto», ricordava con L’Espresso Eugenio Pini. Perché il vicebrigadiere Francesco Tedesco, imputato nel processo bis sulla morte di Stefano Cucchi, ha deciso di violare il codice non scritto dell’Arma? Qual è il motivo che lo ha spinto a raccontare la verità su quella tragica notte di dieci anni fa? «Rammento perfettamente le sue parole», ricorda Pini, «mi disse: “avvocato, se Stefano Cucchi è morto per le lesioni procurate dai miei colleghi, io voglio raccontare tutto, non posso più tacere”. Dopo il primo interrogatorio con il procuratore Giuseppe Pignatone e con il sostituto Giovanni Musarò, mi disse: “finalmente mi sono tolto questo enorme peso e mi sento rinato”».

Un gesto destinato a mutare il corso del processo contro i carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale e di falso. Con Tedesco testimone diventa difficile sostenere che Cucchi non sia stato pestato a sangue la notte dell’arresto. Il vice brigadiere era lì, aveva visto tutto. E ha tentato di fermare la furia dei suoi colleghi.  «Francesco Tedesco mi aveva conferito l’incarico di assisterlo nel novembre 2015. Nel primo appuntamento mi raccontò cosa avvenne la notte tra il 15 ed il 16 di dieci anni fa. Raccolsi la narrazione dei fatti con molta attenzione e ricordo che Tedesco, nel parlarne, era molto spaventato. Abbiamo analizzato immediatamente tutti i possibili risvolti. Volevo comprendere se fosse sua intenzione rivelare tutto pubblicamente. In quel momento la verità sul caso Cucchi era ancora lontana. Così sono prevalsi in lui il timore di raccontare i fatti e la condizione di prostrazione che hanno accompagnato Tedesco in questi ultimi dieci anni. Non posso dimenticare il terrore che provava Tedesco e lo sforzo che fece nel raccontare, per la prima volta, questo inconfessabile segreto. Mi resi anche conto della sua difficoltà di parlarne con una persona estranea al mondo militare».

In quel momento, quindi, il carabiniere decide di tacere e accettare senza fiatare il ruolo di indagato dopo che la procura di Roma con il pm Giovanni Musarò aveva riaperto il fascicolo su Cucchi. Tedesco aveva paura. Ma era solo questione di tempo, la verità stava per riaffiorare. «Poi Tedesco ha trovato il coraggio. L’aver compreso la gravità dei fatti a cui ha assistito, lo ha portato a chiedere scusa alla famiglia Cucchi e ai colleghi della Polizia Penitenziaria accusati ingiustamente, all’inizio della sua testimonianza in tribunale. Al termine dell’udienza, si è poi avvicinato a Ilaria Cucchi per dirle: mi dispiace». T

edesco, però, è isolato. I colleghi imputati restano abbottonati nei loro cappotti di silenzio, convinti che indossare una divisa significhi impunità. «Liberissimi di farlo. Tutti gli altri imputati hanno deciso la strategia opposta rinunciando addirittura a sottoporsi ad esame. Certo, il processo va avanti e possono ancora rendere delle spontanee dichiarazioni», spiega l’avvocato Pini, veterano nella difesa di poliziotti e carabinieri. «Effettivamente ho difeso e difendo numerosi appartenenti alle forze dell’ordine e alle forze armate, coinvolti in processi penali. Ritengo che la difesa debba impostarsi su posizioni oggettive, razionali e rispettose delle vittime. Il becero oltranzismo sterile è controproducente per la persona che si assiste e difende. Con una visione più ampia condivido l’imperativo profondamente umano esortato da Papa Francesco di smilitarizzare il cuore dell’uomo».

«Cucchi fu colpito prima con uno schiaffo violento in pieno volto. Poi Di Bernardo (uno dei carabinieri imputati ndr) lo spinse. E D’Alessandro (altro militare sotto processo ndr) diede a Cucchi un forte calcio con la punta del piede all’altezza dell’ano. Nel frattempo io mi ero alzato e avevo detto: “Basta, finitela, che cazzo fate, non vi permettete”. Ma proseguì nell’azione spingendo con violenza Cucchi e provocandone una caduta in terra sul bacino, poi sbatté anche la testa. Io sentii un rumore della testa che batteva. Quindi sempre D’Alessandro gli diede un calcio in faccia, a quel punto mi alzai e li allontanai da Stefano».

È il racconto fatto da Tedesco ai pm e poi ribadito nell’aula del tribunale dove è in corso il processo bis sulla sua morte. Una testimonianza che ha messo in crisi la strategia difensiva degli altri imputati. E non solo. Sul processo, infatti, si è abbattuto il ciclone dei depistaggi per nascondere la verità sul caso Cucchi. Un nuovo capitolo che vede indagati diversi carabinieri più alti in grado. Si tratta dei militari che hanno coperto le responsabilità dei loro sottoposti in tutti questi anni.

Il pm Giovanni Musarò ha ricostruito la catena gerarchica delle omissioni. «Questo nuovo procedimento scaturisce certamente da un fatto: la mancanza di atti della polizia giudiziaria riferibili alle lesioni procurate a Stefano Cucchi. L’altra considerazione che riguarda direttamente il mio assistito è che, di fronte a quello che siamo abituati a conoscere come il cosiddetto muro di gomma, le difficoltà non le incontra solo chi dall’esterno vuole conoscere la verità ma anche chi, dall’interno, vuole comunicarla all’esterno. In altre parole, il muro è il medesimo e, una volta che crolla, si possono finalmente incontrare le sofferenze delle persone che hanno vissuto, chiaramente in modo diverso, questa limitazione. Fatemi dire che la stretta di mano tra la signora Ilaria Cucchi ed il Carabiniere Francesco Tedesco può rappresentare proprio questo momento di incontro».

Anche l’avvocato parla di muro di gomma. Quel muro che cadrà definitivamente nel processo sui protagonisti dei depistaggi che per dieci anni hanno reso impossibile accertare la verità su quella notte iniziata in via Lemonia. Omissioni che portano il timbro della catena gerarchica dell’Arma.