Ma anche rispetto, resistenza, istituzioni, incontro. I vocaboli dell’antifascismo oggi secondo chi ci legge e ci segue: le tracce di una comunità che non vuole lasciarsi sopraffare dal peggio

«L’odio è pesante, l’amore è leggero. La violenza è pesante, la pace è leggera. Il risentimento è pesante, la compassione è leggera. E il fascismo è odio, violenza e risentimento. Quindi la mia parola antifascista è “leggerezza”».

Questo ha scritto Sabrina sul nostro sito, là dove chiedevamo e chiediamo alla comunità dell’Espresso di scegliere una parola antifascista, un vocabolo che esprima i valori di convivenza e civiltà - di “terreno comune” - che oggi vediamo calpestati in mille modi e con mille tentacoli: nei razzismi quotidiani, nelle aggressioni e nell’accanimento contro i deboli, nelle tentazioni carismatiche e autocratiche, nell’illusione diffusa che si possa trovare la risposta alla crisi facendo scoppiare una guerra tra ultimi e penultimi, lasciando vincere la propria parte più oscura, il livore e la “Schadenfreude”.

Leggerezza, propone Sabrina: quella che - diceva Calvino - «non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore». E c’è da chiedersi quali macigni abbia sul cuore quel vicesindaco che ha buttato nel cassonetto le coperte di un senzatetto, quell’assessore che ha irriso con una filastrocca feroce 49 anime che vagavano nel Mediterraneo dopo aver attraversato il deserto, quel sindaco che ha fatto sradicare le panchine perché non ci potessero dormire i clochard, quel burocrate in divisa che ha proibito di distribuire latte caldo ai migranti che avevano passato una notte all’addiaccio.


“La parola antifascista” - il titolo che abbiamo dato all’incontro che si è tenuto a Roma il 12 gennaio, primo di una serie che coinvolgerà altre città - non è e non vuole essere un rimbombo di retorica autoconsolatoria né un ritrovo carbonaro di chi oggi è in direzione ostinata e contraria. Al contrario: è e vuole essere un passo aperto e in positivo per trovarsi e provare a rovesciare insieme la corrente egemonia culturale, quella di un Paese dove ormai sembra normale buttare candeggina negli occhi a un uomo perché ha un colore della pelle diversa, dove il ministro in capo è insieme causa ed effetto di questo tuffo nel peggio, dove una inane e compromessa opposizione partitica è ormai già di fatto superata da un contrasto civile e sociale che abita altrove - nelle associazioni, nel volontariato, in pezzi di sindacati, nei laici e nei credenti, nei movimenti degli studenti e delle donne, comunque lontano dal Palazzo.

Leggiamole allora queste parole, pietre di una collana fatta di idee, tracce, sogni, speranze e tante altre cose ancora, condivise come messaggi in bottiglia lanciati nel mare della rete. Leggiamo per esempio «conoscenza», la parola che ci propone Donatella «perché il fascismo nasce dall’ignoranza e dalla paura, spesso questa stessa figlia dell’ignoranza». Leggiamo «educazione», inviata da Vincenzo che la argomenta con una frase di Paulo Freire: «Se l’educazione non è libertaria, l’oppresso sogna di essere l’oppressore». Leggiamo «cultura», come ci scrive Giulio riferendosi al suo senso etimologico: «Dal latino “colere”, coltivare, quindi coltivare amicizie e conoscenze, per progredire mentalmente, per abbattere le barriere del pensiero». Leggiamo «pedagogia», proposta da Lucia che rompe così quel tabù contemporaneo che accusa la pedagogia di saccenza, quando è invece migliorare se stessi e gli altri, imparare e insegnare ogni giorno, da don Milani allo stesso Freire.

Leggiamo «empatia» (Stefania e altri) «perché per essere davvero umani si deve sempre provare a mettersi nei panni degli altri», il che di questi tempi sarebbe già uno straordinario programma politico e culturale. Leggiamo «costruire» (Lara) perché «essere antifascista vuol dire costruire, mattone su mattone, la società che vogliamo essere. Ognuno è chiamato a mettere il proprio mattone per far crescere il senso di comunità e responsabilità sociale. Ciascuno di noi è chiamato a contribuire: una moltitudine coesa nonostante le differenze». Sulla stessa lunghezza d’onda è Chiara la cui parola è «ognuno», scrive, «perché mi parla di diritti umani». Oppure «coraggio» (Giuseppe Trotta) «perché il vero coraggioso è chi difende il debole mentre il fascista è un vigliacco rintanato nel branco»; o «ascoltare» (Saverio) perché a partire dall’ascolto possiamo comprendere che noi siamo loro, senza differenze»; «disaccordo» (Eugenio) «perché chiunque possa affermare di non essere d’accordo»; «amore» (Saverio) «perché l’amore unisce esaltando le differenze».



Leggiamo «pensare», proposto da Donatella, «perché chi pensa ricorda e si ferma a riflettere». E «pacatezza», la parola che ci manda Roberta perché «il fascismo è fatto di toni sprezzanti e slogan altisonanti»; e «gentilezza» (Angela) «perché chi è gentile è tollerante». Vocaboli entrambi controvento ora che soffia il libeccio dell’urlo più forte e del testosterone muscolare: e la mitezza viene confusa con la debolezza, il rispetto con la subordinazione. E appunto ecco «rispetto», parola proposta da diversi lettori «perché viviamo in un clima di perenne odio, alimentato dall’insana spinta a insultare chiunque non la pensi come noi», o perché « il bullismo non c’è solo a scuola ma si nasconde anche dietro un ‘’bacioni’’ su Twitter».

Poi c’è Gabriella che propone «elasticità», perché «l’elasticità mentale consente di adeguarsi ai cambiamenti nella società di confrontarci con gli altri», mentre Eleonora risponde con «mescolanza» intendendo «un luogo in cui le differenze co-abitano e le minoranze sono rispettate», Flavia con «complessità» che è «un atto di libertà, riflessione, esercizio del pensiero, conoscenza» e Flavio con «sorriso», perché «le anime nere non sorridono, sogghignano». Stefania invece ci manda «ponte», che «crea un collegamento, una relazione tra unità che altrimenti sarebbero separate e distanti».

Per Luigi la parola è «istituzioni»: perché «rispettarle - non umiliarle né farne una bandiera di partito - significa rispettare tutti i cittadini, la convivenza civile, la democrazia». Per Giusy è «meticcio», perché «non esistono le razze». Per Bonnie è «vita», perché «la cultura che si sta diffondendo è di morte, disperazione, inquietudine, e va dritta dritta verso il buio». Per Gessica è «scelta», perché «se si ha la possibilità di scegliere si ha libertà, mentre in un paese fascista non la si ha». Per Antonio la parola è «antimilitarismo» perché «da sempre il militarismo è lo strumento per garantire l’oppressione». Per Carla è «anima» in quanto «tutto è connesso e antifascismo è riconoscere l’anima del mondo».

Non mancano poi le argomentazioni personali come quella di Marco, la cui parola è «ventunesimo» perché «mio padre a 16 anni fu preso per essere fucilato e mentre era sulla camionetta il soldato tedesco con la baionetta contò i condannati e arrivato a 20 spinse il ventunesimo fuori: mi sono sempre sentito figlio del ventunesimo». Autobiografico anche «solaio», firmato Cod: «I miei bisnonni hanno nascosto un gruppo di partigiani nel solaio del loro casolare nel lecchese». Poi c’è «insegnante», il contributo di Rossella che rende omaggio a quella «della mia prima media, 1960, Giselda Gigliotti: ci parlò di come lei, unica della sua famiglia, era sfuggita all’Olocausto e ci mostrò che cosa era stato il fascismo».

Tra le tante parole proposte ce ne sono anche di più classiche ma sempre sentite come fondanti: libertà, solidarietà, resistenza, confronto, democrazia, compagni, partecipazione, memoria, partigiano, condivisione, impegno, Costituzione, inclusione, unità, fratello e così via. Ma ci sono anche vocaboli imprevedibili come «pigiama», proposto da Evelina perché «è uno degli indumenti che teniamo di più addosso e al quale diamo meno importanza ma nelle parole del sindaco di Torre Melissa il “pigiamino” è diventato accoglienza, aiuto, fratellanza verso gli sconosciuti e i diversi. Il pigiama per me è un simbolo della disobbedienza alla violenza di questi tempi».

Ci sono infine due parole che forse danno il senso a tutto questo articolo, così come all’incontro di Roma e a quelli che faremo presto altrove. La prima ce l’ha inviata Valeria ed è «incontrarsi», appunto: «Per conoscersi, parlare, confrontarsi, spiegare. E guardarsi negli occhi per dileguare le paure e la ferocia di questi tempi». La seconda è di Marco da Livorno ed è «resilienza»: «Tutto ciò che sta succedendo in questo momento non farà altro che darci la forza per rinascere, in tutti i sensi».Con la leggerezza di cui parlava Sabrina, quindi, non si può che chiudere dicendo: ora e sempre resilienza.