Per la prima volta la polizia scientifica dimostra che quello potrebbe essere il punto di osservazione utilizzato dagli assassini per far esplodere la Fiat 126 imbottita di tritolo che uccise il magistrato e gli uomini della scorta. Grazie a strumenti sofisticatissimi in grado di far luce su delitti rimasti per decenni oscuri e senza colpevoli
L’ immagine resta sconvolgente. Il deserto della città di una domenica estiva che si riempie di morte. L’esplosione, l’onda d’urto, le fiamme. Ma anche a distanza di 26 anni, in questo caso tutto può essere rallentato, approfondito, analizzato. C’è il tetto del palazzo grigio in costruzione che offre una visuale perfetta. Il cancello di via Mariano d’Amelio è a 170 metri, si può scrutare ogni movimento, ma dalla strada nessuno può vedere cosa accade quassù. Il tasto del telecomando da premere e poi il boato. Una spinta d’aria travolge, riduce tutto in fuoco e sangue. Il sole si oscura per sessanta secondi dentro una nuvola di fumo. Così per la prima volta la polizia scientifica dimostra che quello potrebbe essere il punto di osservazione utilizzato dai killer per far esplodere la Fiat 126 imbottita di tritolo. Quella bomba che ha ucciso Paolo Borsellino e gli uomini della sua scorta Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi, Claudio Traina, Vincenzo Fabio Li Muli e dilaniato la storia d’Italia.
In cima a quel palazzo di proprietà dei fratelli Graziano, vicini al clan dei Madonia, c’erano saliti il giorno dopo anche due ispettori della Criminalpol. Mario Ravidà e Francesco Arena su quel tetto avevano ritrovato numerosi mozziconi di sigaretta. Tutto descritto in una dettagliata relazione. Non s’è più trovata. Scomparsa tra sentenze marce, inquinate da falsi collaboratori di giustizia e inchieste dubbie. Sepolta da quello che i giudici della Corte d’assise di Caltanissetta hanno definito un «proposito criminoso».
Alla scientifica però non si sono arresi e hanno voluto verificare. «Con un laser scanner abbiamo riprodotto lo spazio attraverso una nuvola di punti, abbiamo inquadrato tutti gli edifici e ottenuto un modello navigabile che consente di visualizzare il luogo dell’esplosione da diversi punti di osservazione», spiega il poliziotto mostrando un video finora inedito. Poi rimanda in play e mentre si plana dal palazzo al cratere la voce si rompe di emozione: «La ricostruzione permette di guardare anche cosa è accaduto dalla prospettiva delle vittime». Un lavoro importante portato avanti da agenti in camice bianco. Laureati in chimica, ingegneria, fisica utilizzano la scienza per comporre articolati puzzle di indizi fino a incastrare chi ha commesso un reato. Eredi della logica di Salvatore Ottolenghi, il medico legale padre della polizia scientifica, accompagnano il futuro nel presente. «Erano i primi anni del ’900 e si parlava di approccio alla realtà fisica: fotografie da destra a sinistra, dal generale al particolare, dal basso verso l’alto, oggi cambia l’approccio alla scena del crimine: da tutto verso tutto» spiega Vittorio Rizzi, a capo della Direzione centrale anticrimine.
Nel quartier generale, a due passi dagli Studios che fecero grande il cinema italiano, qualunque scena del crimine diventa reale. Visori, joystick, tute coperte da sensori. Come in un videogioco l’assassino si muove dietro al cespuglio, spara tre colpi dal basso. Poi di nuovo dall’alto, da destra, da sinistra. Ecco cosa vede il testimone e poi la vittima prima di cadere a terra. I sensori sulla tuta del poliziotto registrano ogni azione e i delitti si possono ripercorrere centinaia di volte, con i protagonisti che diventano avatar capaci di muoversi dal vivo fino a rivelare ciò che realmente è accaduto.
E così dietro la porta di una stanza apparentemente vuota, in realtà ci si trova immersi tra le vie di una grande città pronti a seguire un rapinatore in azione. Il suo volto è stato immortalato solo per pochi istanti dalla telecamera di una banca, ma ora, grazie a un sistema di matching 3D, viene svelato ogni suo movimento. Nell’ufficio accanto si è già sul luogo di un delitto. In tempo reale. I dati vengono infatti trasmessi in diretta alla centrale operativa dai nuovi mezzi nati in collaborazione con Fiat. Si chiamano Full Back e sono “pick-up laboratorio” con all’interno kit per i rilievi biologici, chimici, fisici e dattiloscopici, fari orientabili, un sistema per consultare le banche dati. E poi camere bianche che fanno “autopsie” a cellulari e computer riuscendo a recuperare dati anche criptati o contenuti in dispositivi rotti. E ancora sul tetto dei laboratori un sistema che consente di creare una rete telefonica ad hoc per far viaggiare le comunicazioni della polizia in occasione di eventi ad alto rischio, come una partita di calcio o una visita di un capo di Stato.
Tecnologie per i cold cases, strumenti all’avanguardia che consentono di decifrare delitti rimasti per decenni oscuri e senza colpevoli. Era il dicembre del 1999 quando Valeriano Poli, buttafuori di 34 anni, veniva ammazzato davanti a una discoteca di Bologna con otto colpi di pistola calibro 7.65. Oggi il presunto assassino ha un nome: Stefano Monti e la prova è una macchia di sangue sugli scarponcini indossati dalla vittima. «Secondo Monti risaliva a una scazzottata avvenuta venti giorni prima dell’omicidio, ma abbiamo estrapolato da un video successivo a quell’episodio una sequenza di immagini in cui Poli li indossava», spiega Gianpaolo Zambonini direttore della divisione tecnologica. «Li abbiamo inseriti nei video dell’epoca rendendoli virtuali e il confronto dai fotogrammi ha dimostrato che le macchie del sangue erano diverse».
Evidenze virtualiComparazioni tridimensionali, come l’Analysis of Virtual Evidence, e tecniche di fotogrammetria. Due fisici mostrano tre grossi fori sulla lamiera di uno sportello. È quello dell’auto blindata di Giuseppe Antoci. Partendo da quei tre colpi di fucile hanno ricostruito le traiettorie e la dinamica dell’agguato al presidente del Parco dei Nebrodi. Centinaia di fotografie scattate da ogni angolo, una camera ultraveloce in grado di comprendere il comportamento del proiettile in volo, un software che ricrea in un modello tridimensionale l’auto. La perizia balistica conclude che a fare fuoco è stata una sola persona. I colpi di fucile sono stati esplosi dall’alto verso il basso. L’obiettivo era arrestare la corsa dell’auto per poi lanciare bottiglie molotov così da costringere Antoci e gli uomini della scorta ad uscire dall’auto blindata e ucciderli. La dinamica è chiara, ma i responsabili non sono ancora stati trovati.
Dentro alla palazzina a vetri sembra di essere sul set di Csi, c’è persino un laboratorio clandestino per produrre anfetamina e Mdma, con il percorso di sintesi e le pasticche colorate con tanto di timbro. «Questo invece è un tappeto all’eroina, l’hanno cucita dentro tra i fili di lana». Annamaria Caputo mostra il tessuto. Insieme alle sue colleghe, tutte donne e tutte laureate in chimica, inserisce un po’ di polvere bianca in un solvente. Pochi minuti e lo spettrografo di massa rivela: droga all’83 per cento. «Quasi tutta quella che circola in questo momento ha un alto livello di purezza. Non è un buon segno, la maggior parte delle overdose si hanno non perché le sostanze vengano tagliate male, ma perché sono troppo pure», spiega.
L’altro lato del corridoio è il regno dei biologici. Per entrare bisogna eseguire un test del Dna: guanti, tampone in bocca e firma su modulo della privacy. «Sarà conservato per un anno e lo facciamo nel caso contamini involontariamente le prove», assicurano. All’interno, sotto a una cappa di sicurezza, c’è una maglietta blu. Sulla manica ingrandita al microscopio si vede una piccola macchia. È da lì che viene estratto il profilo genetico che sarà confrontato con quelli presenti nella banca dati. A inizio 2017 sono stati inseriti i primi profili genetici. «Soltanto quelli autorizzati dall’autorità giudiziaria», chiarisce Lilia Fredella, vice direttrice scientifica. «Se due profili combaciano chi accede al sistema non ottiene un nominativo ma delle sequenze di lettere e numeri. Solo successivamente possiamo associare a quel codice un nome».
Accanto in una sala operativa, attiva 24 ore su 24, si confrontano le impronte. Su un monitor lampeggia un volto. È quello di un giovane di Oristano che ha commesso alcuni furti. È qui che partendo dalle impronte del cadavere di Anis Amri si è ricostruita in poche ore la storia italiana dell’attentatore di Berlino. La banca dati contiene 16 milioni di cartellini di foto-segnalamento, pari a 9 milioni e mezzo di persone. Non solo impronte, ma anche volti. Sari, il Sistema automatico di riconoscimento immagini, è un potente software di analisi neurale in grado di interrogare i volti. L’intelligenza artificiale per mezzo di uno o più algoritmi di riconoscimento facciale emula il ragionamento della mente umana su come effettuare la comparazione: distanza delle pupille, tra lobo e orecchio, tra punta e naso. «Non è attivo un sistema realtime e vale solo per l’attività investigativa, al pari di un pedinamento», precisano. Potrebbe esserci infatti un problema di privacy e di garanzie negate nel caso in cui durante una manifestazione pubblica ad esempio i volti ripresi dalle telecamere finissero in un archivio delle forze dell’ordine senza che sia aperto un fascicolo d’inchiesta da parte di un magistrato. Perché qui si cercano prove che pesino nei processi.
A breve il sistema sarà integrato con la piattaforma Mercurio utilizzata dalla polizia per il controllo del territorio. Sulla plancia della volante un tablet e una telecamera esterna dotata di zoom sono già in grado di leggere le targhe e in automatico scoprire se l’auto risulta rubata. Nel futuro molto prossimo potranno pure interrogare un volto.
Progressi scientifici per ottenere «non una verità, ma la verità». Quella che con forza ha chiesto fino all’ultimo giorno Rita Borsellino, la sorella del giudice assassinato.