La sanità pubblica, nata quasi distrattamente nel 1978, resta un motivo di orgoglio per il nostro Paese. Perché investiamo nella salute meno di Germania e Francia, ma otteniamo comunque risultati eccellenti. Parla Francesco Taroni, professore di Medicina Sociale

Era il 1978, l’anno del rapimento Moro e dell’elezione di Pertini. La crisi economica minacciava il Paese, alla guida dell’Italia c’era il governo di “solidarietà nazionale” guidato da Giulio Andreotti. Ministro della sanità era la democristiana di sinistra Tina Anselmi. A dicembre, quasi in sordina, («distrattamente», come ebbe ?a dire Luciana Castellina) il Parlamento approvò la legge 833, dando vita così ?al Sistema Sanitario Nazionale, ispirato all’articolo 32 della Costituzione ?e al principio della salute come bene universale e gratuito. Prima il sistema era basato sulle cosiddette “casse mutue” ?di categoria (la più famosa era l’Inam): quindi Il diritto alle cure derivava non dall’essere cittadino, ma dall’essere lavoratore (o suo familiare), il che determinava casi di mancata copertura ?e gravi sperequazioni tra cittadini. Ripercorriamo i 40 anni del Ssn con Francesco Taroni, professore di Medicina Sociale all’Università di Bologna, autore del libro “Il Ssn in una prospettiva storica” (Il pensiero scientifico, 2011).

Professor Taroni, come nacque il Sistema sanitario nazionale? Che cosa convinse ?i politici a crearlo?
«Da una parte la grave crisi finanziaria delle casse mutue, che richiese un finanziamento di quattromila miliardi ?di lire del tempo. Dall’altra l’istituzione delle Regioni, che risaliva al 1973. ?E poi, soprattutto, le istanze sociali nate con la “stagione dei movimenti”: quello femminile, operaio, studentesco, antimanicomiale. Il risultato fu una legge che trasformava l’assistenza sanitaria in un diritto di cittadinanza, universalistico e finanziato dalla fiscalità generale. Un atto di forte volontà politica che sanciva però ?il massimo di dissociazione fra situazione politica e realtà economica, perché ?di risorse non ce ne erano».

I problemi di sostenibilità economica furono evidenti fin dall’inizio. Come se ?ne uscì?
«I tentativi di cambiare cominciarono subito. Ma gli interessi in gioco nel campo della salute sono così grandi e divergenti fra loro che solo in situazioni eccezionali si riescono a far convergere. Nel 1992 ?il sistema fu riformato per via del diverso clima politico: l’Italia si dibatteva fra la gravissima crisi economica che aveva determinato l’uscita dallo Sme e l’inizio ?di Tangentopoli. La crisi finanziaria combinata con quella di legittimità politica creò una finestra temporale favorevole ?per l’approvazione in modi molto spicci di una nuova legge, conosciuta come riforma Amato-De Lorenzo, che avrebbe dovuto fare giustizia delle “romanticherie” della legge del ’78, con l’aziendalizzazione ?e regionalizzazione del sistema in un senso molto forte e puntuale. Il decreto legislativo 502/92 impose che i Livelli di assistenza dovessero essere subordinati alle disponibilità finanziarie: lo Stato stabiliva le prestazioni che ci potevamo permettere, le Regioni se volevano garantire di più dovevano trovare fondi propri, per esempio le mutue private. ?Poi, nel 1999, il ministro Rosy Bindi introdusse i Livelli Essenziali di Assistenza che, inseriti nella riforma costituzionale del 2001, non sono più da considerarsi obiettivi da raggiungere, ?ma diritti da garantire a tutti i cittadini».

Il conflitto fra potere centrale e Regioni inizia quindi ben prima della Riforma del Titolo V della Costituzione, che spesso viene evocato per spiegare i 20 diversi sistemi presenti in Italia.
«È vero. Attribuire alla riforma del 2001 ?la colpa di aver creato una diseguaglianza nel trattamento dei cittadini è storicamente inesatto. Ambiguità nelle relazioni fra “il potere della borsa” del governo centrale e le competenze di programmazione delle Regioni c’erano già nella prima legge e la controriforma del 1992 non le sciolse. Comunque lo Stato è dovuto intervenire con i “piani di rientro” che hanno interessato praticamente tutte le Regioni nell’ultimo decennio. Un sistema che, se ha contribuito a risanare ?i conti, ha anche penalizzato i cittadini chiamati a pagare più tasse e ricevere meno servizi a causa del blocco delle assunzioni del personale. Il sistema però ha saputo rispondere, dimostrando ?di essere virtuoso nonostante tutto».

In che senso?
«Basta guardare le cifre: in Italia ?il finanziamento per la sanità, pubblico ?e privato insieme, è intorno al 6,5 per cento del Pil, mentre la Germania spende oltre il 10 per cento, la Francia il 12. Se poi guardiamo all’andamento della spesa, vediamo che la nostra è cresciuta meno della metà della media Eu. Pur facendo economia, otteniamo però risultati in termini di salute tendenzialmente migliori degli altri paesi. Ma alla lunga questo ?è difficilmente sostenibile».

Il finanziamento aggiuntivo, come quello delle assicurazioni private, può aiutare a rendere il sistema più efficiente?
«Dobbiamo considerare che ci sono servizi assicurativi ad alta redditività, che verranno quindi offerti ?da molti, e altri che rendono meno, e che quindi saranno più difficili da reperire. Prima di abbracciare un sistema del genere dovremmo dimostrare che è possibile integrare il funzionamento delle diverse fonti di finanziamento e dei servizi a cui garantiscono l’accesso. Non mi risulta che ci siano prove in questo senso, neanche in altri Paesi. Senza considerare, naturalmente, che un sistema di questo genere è incompatibile con i principi fondamentali del Ssn».

Negli ultimi anni è stato fatto qualcosa per cercare di migliorare la struttura del Ssn?
«Se si fa eccezione per alcuni provvedimenti del ministro Renato Balduzzi (governo Monti), di attuazione peraltro stentata, non mi sembra che la politica sanitaria degli ultimi anni abbia inciso a sufficienza sugli aspetti strutturali del sistema. Il discorso intorno alla sanità si è fatto via via sempre più economico ?e finanziario. Ma il fabbisogno, quanto cioè dobbiamo investire in sanità, non può essere determinato solo dagli equilibri finanziari. Non possiamo disconoscere la crisi, ma dobbiamo ?anche capire quali sono le necessità assistenziali del nostro Paese. Al di là delle decisioni prese dai governi, che si possono più o meno condividere e che in larga parte hanno interessato questioni di dettaglio, è mancato un discorso pubblico e condiviso sul futuro della sanità».