Uno scrittore e un neuropsichiatra si interrogano sul silenzio degli adolescenti. Stefano Benzoni: «No, non sono depressi. Ma obbligati a essere sorridenti e di successo»
Pochi giorni fa, in una pizzeria milanese in cui si consumavano modeste cene per celebrare, tutti cuoiati, il rientro dalle vacanze, mi sono ritrovato accanto a un nucleo famigliare che concludeva il pasto, immolandosi a fette di pastiera napoletana. Il padre era inconsolabile, perché la figlia decenne non sfiorava la torta. Si sa, a tutti i bambini piacciono i dolci. Piacciono davvero ancora? Compitissima, la piccola rispondeva al padre: «Per noi le torte sono un problema: ce ne date in continuazione. I nonni, da piccoli, ne vedevano una ogni cinque anni, non si sognavano di avanzarne una briciola. Voi genitori avevate più dolci a disposizione, quindi eravate meno golosi dei nonni. Noi ne abbiamo quanti vogliamo, per questo siamo annoiati. Questa abbondanza ci rende tristi, credo». Eravamo stralunati tutti, di fronte all’incoercibile maturità con cui la bambina tuonava contro il regime dei consumi. La piccola si è poi immersa in una sessione di Candy Crush, silenziosa in quell’assentamento che tutti conosciamo bene. I bambini, questi enigmi luminosi, sono sempre più i santuari del pericolo imminente e dell’indecifrabilità, proiettati in una trasformazione accelerata di tecnologie e ritualità, rispetto a cui sono spiazzati i genitori e deve misurarsi con ovvie confusioni la scuola. Si assiste al paradosso di un eccesso di preoccupazione nei loro confronti e di una fuga dal dato del loro malessere. Stanno male? Sono normali? Pare che un neopuritanesimo stringa d’assedio il ragazzino contemporaneo, cancellando la possibilità stessa di provare dolore.
«Un giro di orizzonte sul malessere di bambini e adolescenti non può ignorare le criticità del presente ed evitare di proporre soluzioni», afferma Stefano Benzoni, neuropsichiatra dell’infanzia e psicoterapeuta, consulente presso il Policlinico di Milano. I suoi saggi (il più recente, “Figli fragili”, è edito da Laterza) testimoniano uno sguardo articolato sulle alterazioni collettive e le pratiche mediche che concernono l’infanzia e la pubertà.
I dati non spiegano, ma aiutano a fare chiarezza. I bambini oggi stanno male?«Le statistiche internazionali, a partire dall’Organizzazione mondiale della sanità, rilevano che i disturbi neuropsichiatrici infantili tendono attualmente dal 9 al 20 per cento dei minori di 18 anni. Un bambino su cinque. Sono inclusi i disturbi dell’umore, le sindromi da iperattività, le sofferenze cognitive, i deficit di apprendimento. Se discriminiamo all’interno di questa popolazione in sofferenza, risulta che il 2,5 per cento dei bambini italiani manifesta una gravità intermedia, e l’1 per cento si trova in situazioni estremamente difficoltose. Un altro dato rilevante registra negli ultimi anni un costante aumento di pazienti in carico alle neuropsichiatrie. In Lombardia, siamo passati, dal 2008 a oggi, da 65 mila minori a 114 mila, e l’aumento è stato particolarmente elevato per adolescenti e preadolescenti. Gli accessi degli adolescenti in pronto soccorso risultano aumentati del 21 registra nel biennio 2013-14. Sono ugualmente preoccupanti le statistiche sui collocamenti in comunità terapeutiche, che dati Lombardi suggeriscono che stiano incrementando del 10 per cento l’anno».
Cosa motiva un disagio in crescita così esponenziale?«Molti sono i fattori, ma è probabile che l’ideologia che esprime il sistema di vita occidentale sia inscindibile dalle derive patologiche. La cultura sociale, interpretata dalle famiglie e dalle istituzioni, è determinante nella definizione della salute mentale e nel modo in cui le persone percepiscono di avere bisogno di cure. Il livello di infelicità risulta più intenso dove c’è una maggiore medicalizzazione e psichiatrizzazione. Nelle nazioni cosiddette avanzate, in cui è più forte la cultura della cura sanitaria, si registra una maggiore incidenza delle patologie e non perché le diagnostichiamo meglio: il disagio è oggettivo. Il fatto è che assistiamo a uno slittamento verso la sanitarizzazione dei discorsi sul benessere, che oggi è saturato di parole d’ordine prelevate dall’ambito medico. Parlare di benessere significa sempre di più citare radicali liberi e prevenzione sanitaria. È un dato culturale pervasivo. Interpretare i comportamenti reali alla luce di una possibile natura patologica degli stessi è una cifra tipica delle società avanzate, che determina una psichiatrizzazione della normalità. La grande enfasi dedicata al trauma, l’eccesso di pretesa di felicità o il controllo dei comportamenti sono modi in cui le discipline psicologiche e psichiatriche insediano il loro intervento nella vita generale delle persone».
La reazione che può derivarne è un assalto alla scienza e alla psichiatria in particolare.«Quando si parla di psichiatrizzazione della normalità, non si può ridurre questa formula alla sua versione paranoica e complottista. La vulgata sulla lotta antipsichiatrica è ancora molto forte. Viene fatta prevalere la narrazione di una società saturata dagli psicofarmaci, per via dell’interesse delle società farmaceutiche. Ma non si tratta di una cospirazione, è la società nel suo complesso a cedere alla propria sanitarizzazione. Dagli anni Sessanta gli psicofarmaci sono un fenomeno di consumo di massa. Usciti dagli ospedali psichiatrici, sono diventati i farmaci di casalinghe avvilite, di tranvieri spossati, di manager dubitabondi. Questa cultura collettiva del lenimento, cioè dello psicofarmaco riparatore, introduce a una dialettica molto scivolosa tra cura e benessere. C’è poi da dire che le nostre classificazioni delle patologie sono pure finzioni simboliche consensuali. Ciò non significa negare la malattia, anzi. Questa finzione simbolica collettiva ci aiuta a governare il sistema delle cure, se la affrontiamo con grande spirito critico, riconoscendone i limiti, rifiutando di reificare le malattie come se fossero oggetti fisici del mondo. La depressione non è un oggetto che si trova nel mondo, è una narrazione continuamente rinegoziata con i valori culturalmente dominanti».
Il processo di accelerazione tecnologica, che stiamo vivendo, è per i ragazzi un elemento esso stesso patogeno?«L’accelerazione delle trasformazioni tecnologiche e comunicative è diventata un sistema totalitario di valori, in cui sono immersi bambini e ragazzi, una sorta di nuova natura che comporta alienazioni finora inedite. Si crea un’alienazione rispetto alle azioni, perché grazie alla connessione si può agire sull’oggetto senza toccarlo. Si modifica il rapporto con il tempo, abituandosi all’uso di operatori temporali come “refresh” o “undo”. C’è anche la creazione di un nuovo tipo di alienazione rispetto agli spazi. Si è poi passati troppo velocemente dall’ethos della performatività, cioè essere abbastanza fighi, all’ethos del continuo ed esasperato cambiamento, perché essere fighi è oggi troppo effimero. E ciò incide anche sul rapporto con la morte e col ciclo di vita. L’accelerazione dei mutamenti sociali fa sì che oggi il divario non sia più intergenerazionale, ma intragenerazionale, tra fratelli che a distanza di pochi anni interpretano immaginari differenti. Questi nuovi tipi di alienazione implicano fragilità rispetto all’organizzazione del sé, alla costanza nel tempo, alla definizione della stabilità delle relazioni affettive. È una rivoluzione che non può non avere legami con le crescenti aspettative nei confronti dei figli, con nuovi tipi di malesseri e con la collettiva percezione di alcune patologie infantili, come i disturbi specifici dell’apprendimento (Dsa: dislessia, disgrafia, discalculia) e la sindrome da deficit di attenzione e iperattività (Adhd)».
Si sta discutendo molto di contagio delle diagnosi della dislessia e degli altri disturbi dell’apprendimento, così come di pandemia farmacologica.«Le statistiche del ministero dell’Istruzione restituiscono una cifra del 2,1 per cento di disturbi specifici dell’apprendimento tra gli alunni. L’unico studio epidemiologico effettuato sulla popolazione italiana affetta da Dsa ci dice che la prevalenza attesa per la sola dislessia è dell’ordine del 3,2 per cento - quello è il picco. Tutti dati in linea con le statistiche internazionali. E nelle scuole si contano circa 235 mila bambini e ragazzi con disabilità. Non sono cifre differenti da quanto si rileva all’estero. Anzi, se si misura la percentuale delle scuole speciali tedesche, emerge che è più del doppio del numero dei diagnosticati in Italia. Quanto all’allarme sugli eccessi di psicofarmaci, va smontato. I dati dell’Istituto Mario Negri indicano che un bambino su mille consuma antidepressivi e in Olanda sono il doppio, mentre in Canada siamo al 15 per mille e negli Usa al 35».
Negli Stati Uniti i pediatri iniziano a prescrivere il gioco. Una ricerca ha rilevato che il 49 per cento dei piccoli non gioca fuori da casa. Cos’è il gioco oggi?«C’è un’invasione di tecnologia in tutte le intercapedini della giornata, a maggior ragione nel gioco. Ciò tradisce una diffusa paura del vuoto, ovvero della noia. Questa ingiunzione a essere sempre occupati e divertiti è disfunzionale. È ingiusto colpevolizzare i genitori, che sono parte di un meccanismo sociale molto ampio, dentro al quale si trovano in grandissima difficoltà. Il gioco, insieme con l’educazione, è il braccio secolare dell’ideologia e quindi non possiamo stupirci se vi ritroviamo elementi della visione dominante. Oggi è difficile per qualunque genitore anche solo riappropriarsi di un set di valori personali, figurarsi riuscire a farci crescere dentro i figli. Le patologie infantili reagiscono anzitutto a questi mandati dominanti. Lo ha detto in modo straordinario Mark Fischer, nel suo “Realismo capitalista”: è più facile immaginare la fine del mondo, che del capitalismo. Proprio il gioco dovrebbe essere uno di quei momenti in cui lo spazio, lasciato vuoto dagli accudimenti, dalle imposizioni e dai dispositivi educativi, è riempito dalla libera iniziativa dei bambini. Quando però si vedono i bambini interagire con fogli di carta, cercando di allargare la foto su un giornale come se fosse un tablet, si comprende che questa tecnologia implica aspetti preoccupanti».
Si parla di un’autentica epidemia dell’infelicità per i ragazzi di oggi.«A quel termine si appassionano molto gli allarmisti. Oggi sappiamo che non c’è un’epidemia di depressione tra i bambini, così come non c’è un’epidemia di autismo, men che meno causata dai vaccini. Però i dati segnalano un crescente disagio. Io invito a interrogarci se questa “epidemia di infelicità” non sia invece un’“epidemia di felicità”, cioè una sorta di ingiunzione morale collettiva rispetto al mantra della felicità. Bisogna essere sempre sorridenti, di successo, pieni di like. Noi trattiamo tredicenni, neanche più diciassettenni, in crisi perché il loro Instagram va male. Il problema qui non è la solitudine, ma l’opposto: l’eccesso di sovraesposizione sociale causa il disinvestimento dalle relazioni interpersonali e dai luoghi. C’è il celebre argomento del filosofo Robert Nozick, che ispirò il film “Matrix”: se venisse chiesto di legarsi a una macchina che rende eternamente felici, ma senza relazioni reali e in una pura finzione, la maggior parte delle persone risulterebbe indisponibile a quel tipo di felicità. Perché la felicità per noi c’entra con le relazioni, con l’autenticità degli scambi con l’altro. Se ciò viene meno, si creano problemi profondi».
Patologie a parte, come sta mutando l’espressione emotiva nei bambini?«I bambini millennial sono molto più consapevoli dell’importanza della visibilità, il che sta radicalmente cambiando il loro rapporto con ciò che è intimo, privato e segreto. I bambini delle nuove generazioni sono molto più coscienti del fatto che l’immagine di sé, il proprio stato emotivo e il proprio corpo possono essere in ogni istante visti, registrati, condivisi. Una simile esposizione alla visibilità e all’abolizione del segreto scatena fenomeni opposti di repressione delle emozioni, ma anche una disacerbazione dell’espressività - si vedono bimbe che si fanno i selfie con la duck face o bambini che usano l’espressività corporea in senso enfatico, attingendo a registri espressivi che sono chiaramente legati allo strumento tecnologico».
Che elaborazione richiede alla scuola questa emersione dei nuovi disagi?«Sarebbe bello che, insieme a una cultura degli insegnanti circa le patologie, si imponesse anche una cultura della salute, svincolata dai criteri della medicalizzazione. Sarebbe necessario enfatizzare i punti di forza e le risorse dei bambini, il che imporrebbe una rivoluzione culturale nell’insegnamento e nella valutazione dei singoli. Oggi, se si domanda agli insegnanti quali sono le linee guida sulla dislessia, le conoscono a memoria, ma, se si chiede cosa fare di un bimbo che legge meglio degli altri, nel migliore dei casi si ottengono tante risposte quanti sono i docenti. Medici e psicologi spesso non fanno di meglio. Viviamo in un sistema centrato sul problema piuttosto che sulla nobilitazione delle risorse. Riguardo all’influenza della scuola sulle patologie, ho l’impressione che talora ci si rifugi a invocare possibili disturbi dell’apprendimento, perché affrontare con i ragazzi e le famiglie l’esistenza di problemi affettivi o del comportamento è molto più difficile. Quando i ragazzi falliscono rispetto all’efficienza attesa, la scuola finisce così non di rado per esprimere giudizi di carattere sanitario. Stare bene di mente però non significa affatto non avere patologie, ma sapere anche cosa ce ne facciamo delle nostre buone qualità. La psichiatria insegna che spesso le situazioni complesse si risolvono non lavorando sui problemi, bensì intervenendo proprio sui punti di forza residuali. La sfida per il futuro è una psichiatria critica, che sappia rimettere al centro del lavoro scientificamente fondato i valori delle famiglie e una nuova cultura della promozione delle loro risorse e dei fattori di resilienza. È una prova alla nostra portata, purché ci sia la volontà politica».