Papiri, gioielli, statue, oggetti di culto. Rubati durante la guerra. Ora in vendita su Internet

Un rotolo, una scatola decorata con smalti e pietre contenente un volume con simboli in oro, un anello e uno yad, il puntatore con cui si leggono i testi sacri ebraici. «Quanto potrebbe valere, è roba bella eh?». Abu Majid sistema gli oggetti sul tappeto. C’è abbastanza luce, foto e riprese vengono bene. Il telefonino indugia sui dettagli, poi fa un’ inquadratura più ampia. Il video circolerà su WhatsApp. Intanto Abu vorrebbe avere un’idea di quanto ci possa ricavare: «Tramite un amico, un ricco ebreo tedesco mi ha già offerto 40 mila euro. Prende tutto. Ma non so ancora come fare la transazione», dice, mentre invia le immagini ad amici e contatti per cercare qualche altro collezionista e strappargli una cifra più alta.

Grandi speranze per piccoli oggetti, dentro il traffico di opere d’arte e antichità dalla Siria e dall’Iraq, un fiume sotterraneo che emerge solo con la notizia di qualche sequestro in Turchia, in Egitto, in Libano o in Bulgaria. Va dai 100 ai 300 milioni di dollari il valore delle opere rubate solo dall’Isis, ma il mercato complessivo è stimato dai 3 ai 5,7 miliardi di dollari: tutti i protagonisti della guerra - milizie, gruppi jihadisti ed eserciti regolari - hanno reso questo traffico una delle proprie forme di autofinanziamento.

Il grosso dei saccheggi di mosaici, statue, monili, bassorilievi da siti, musei, luoghi sacri è avvenuto dal 2012 al 2015 e la maggior parte delle antichità è già dentro quel fiume dal quale, come in Europa coi nazisti, riaffiorerà al pubblico anche tra decenni. Ma lo sbandamento del Califfato e di molte milizie, unito all’impoverimento e alla devastazione di città e villaggi, ha frammentato lo scenario accelerando i meccanismi di vendita spingendo a ideare nuove forme di business. Così non solo è in crescita il mercato di reperti autentici attraverso social e piattaforme di e-commerce, ma anche la diffusione di falsi, gestita da una rete che coinvolge laboratori, esperti, broker, gente comune. Ed ex combattenti dello Stato islamico come Abu Majid. Caduta Palmira, Abu ha lasciato il villaggio di al-Bab per trasferirsi a Maskanah e ricominciare da capo con commerci illegali e contrabbando. «Questi oggetti li ho trovati io», assicura. «Dove non lo posso dire». Ma questa è la Siria del nord e il confine turco è vicino. C’è un fronte attivo di combattimenti tra al-Bab e Tadef, a nord est di Aleppo. In zona c’è ancora l’Isis, fazioni ribelli e islamisti si scontrano con i soldati dell’esercito regolare del presidente Bashar al-Assad. L’ultima foto nota della sinagoga di Tadef ritrae il cielo dietro il tetto sfondato. Qui c’era anche l’antico santuario di Esdra lo Scriba: le famiglie ebree aleppine all’inizio del secolo scorso ci passavano i mesi estivi prima che lasciassero per sempre la Siria dopo l’attacco delle tribù beduine. La comunità potrebbe non aver portato tutto in salvo. «Ho altri video di libri», dice Abu Majid. Sono volumi in pelle rotondi con i simboli della Cabala. Sembrano falsi.

Tombaroli e mercanti

«Dall’estate del 2012 abbiamo chiuso i musei e portato al sicuro migliaia di oggetti. Ma sono circa mille i siti archeologici e religiosi che non abbiamo potuto proteggere», spiega Maamoun Abdulkarim, archeologo e da poco ex direttore generale delle Antichità e dei Musei del Ministero della Cultura siriano. Siti spesso ripuliti a più riprese: prima dalle milizie e poi da gente comune che tornava a raccogliere quel che restava. «So di ex manovalanza impiegata nelle missioni archeologiche internazionali, poi interrotte con la guerra, che ha scavato per conto proprio o per conto dei jihadisti», racconta Alberto Savioli, esperto di Siria, archeologo e membro del progetto Land of Nineveh dell’Università di Udine. «Sono circolati video in cui il saccheggiatore si riprendeva di notte durante il recupero dei pezzi, con la scusa di metterli in salvo». Il Califfato aveva uno speciale comparto dedicato alla gestione dei bottini di antichità e manufatti con sede a Manbij, sul confine turco. A metà del 2014 ha iniziato a organizzare i saccheggi sui siti concedendo “licenze” e imponendo tasse del 20 per cento sui ricavati dei ritrovamenti. Chi lavorava senza licenza veniva punito. Col tempo l’organizzazione ha iniziato ad investire utilizzando escavatori e attrezzature proprie e ad “assumere” squadre di operai e archeologi locali.

«Gli oggetti vanno dall’età del ferro e dal periodo preclassico fino all’epoca romana. Mosaici, statue, bassorilievi, ma anche unguentari, vasi, corredi funebri», dice Savioli. «Se sono piccoli o di minor valore, è facile trovarli nei suq e dagli antiquari in Libano e Giordania. Ho visto parti di collane e piccoli gioielli dall’età del bronzo al Medio assiro, monete islamiche, ellenistiche, romane. E molte monete in oro, del periodo omayyade», il nostro Alto Medioevo. Quello che viene trafugato attraverso i contrabbandieri da sud e dall’area di Damasco, esce attraverso il Libano. Se il bottino proviene dall’area orientale o dal centro del paese e dall’Iraq, passa dalla Turchia. «In Libano ho assistito al recupero di un mosaico strappato dalla sua sede, incollato su un telo e poi avvolto in un tappeto trasportato nel bagagliaio di un autobus di linea», racconta Savioli. In alternativa, la refurtiva viaggia su camion che trasportano ortaggi, auto private, perfino convogli di aiuti umanitari. Gli oggetti piccoli possono essere presi in consegna da chi si offre di fare da passatore nascondendoseli addosso in cambio di un compenso. Poi il pezzo viene consegnato al broker-mercante d’arte. L’Isis aveva i suoi, di fiducia, incaricati di trovare compratori stranieri in cambio di una percentuale di vendita dal 10 al 25 per cento . Una volta piazzato il pezzo - che si acquisti online o direttamente a Beirut o a Gaziantep, in Turchia - questo transita verso luoghi di stoccaggio come l’Europa dell’est, Bulgaria e Romania in testa; oppure verso Bangkok o Singapore, quindi inviato in Europa. Qui è la Svizzera l’hub principale. I compratori occidentali prediligono l’archeologia. Le antichità islamiche invece finiscono nei Paesi del Golfo. Le piazze di mercato più fiorenti sono Inghilterra, Germania, Svizzera e Stati Uniti. La prima soprattutto per le monete. Fonti di polizia e di intelligence descrivono come sia necessario un lungo stoccaggio, da 6 a 10 anni, prima che mercanti e case d’asta propongano al pubblico l’oggetto, periodo durante il quale viene fabbricata la sua storia con certificati con finte cessioni e passaggi di proprietà. Spesso i materiali vengono descritti come reperti di scavi ottocenteschi o eredità che la famiglia proprietaria ha deciso di mettere all’asta.

Le app di messaggistica permettono di condividere video e foto mettendo in contatto i soggetti della tratta senza intermediari e in segretezza. L’Isis ha controllato fin dall’inizio quotazioni e tendenze di vendita utilizzando WhatsApp ma anche Facebook, Amazon, eBay e il “Deep Web”, il pozzo nero della rete. Ha accelerato le transazioni attraverso chat, pagine e profili da aprire e chiudere in pochi giorni. Oggetti che si sono riversati su un giro già enorme. Secondo un dato diffuso dal Wall Street Journal, ogni giorno sono almeno 100 mila le antichità messe in vendita online per un valore di oltre 10 milioni di dollari. L’80 per cento di queste non ha una provenienza legale ed è rubata o contraffatta.

Il boom dei falsi rotoli

Esiste e sta emergendo un preciso filone: testi e oggetti della cultura ebraica. Su YouTube sono comparsi decine di video amatoriali in lingua turca con oggetti e testi sacri. Affiancati da cartigli e mostrati nei particolari decorativi, suscitano commenti sulla loro falsità, possibili costi e qualità. Nell’agosto 2017, il Times of Israel riporta la notizia del sequestro in Egitto a un cittadino saudita di un testo esoterico: le pagine però sono «in un ebraico che potrebbe essere stato tradotto con Google Traslate». Nel novembre scorso invece la polizia turca blocca quella che crede essere una Torah di 700 anni valutandola quasi due milioni dollari. «Su account turchi si vendono mix di oggetti falsi e originali senza documentazione. Il materiale falso è spesso ebreo o cristiano perché attira i compratori internazionali», commenta Roberta Mazza, papirologa all’Università di Manchester.

«Dal 2015 è fiorito il giro dei manufatti falsi. Sono passati dal 30 al 70 per cento», conferma Maamoun Abdulkarim. «Abbiamo sequestrato bibbie, libri di preghiere, gioielli, oggetti rituali, monete prodotti nei laboratori artigiani di Aleppo, Damasco e Idlib». Gli esperti ritengono che molte monete greco-romane spacciate per siriane e adesso sul mercato siano prodotte da un sodalizio criminale rumeno. Capita anche che gli oggetti vengano assemblati con parti antiche per renderli credibili e la loro produzione avvenga con la consulenza di mercanti e antiquari.

«Questo è un libro di preghiera contenente testi della Cabala, la mistica ebraica», spiega padre Massimo Pazzini, biblista, docente di ebraico e aramaico presso lo Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme. Una pagina contiene lo Shemà Israel, una preghiera quotidiana. C’è una mano coi simboli cabalisti, la pagina col gallo ad ali spiegate ha il titolo «Quattrocento duecento e uno» e in basso il nome «Esdra ben David». Se non superano 200 anni, per la legge siriana gli oggetti non sono ritenuti antichità. «Sembrano moderni, forse hanno 150 anni, ma dovremmo vederli e poi analizzarli in laboratorio», commenta Abdulkarim. La non autenticità della refurtiva di Abu Majid invece è netta per Alexander Meloni, rabbino di Trieste e ne scatena l’amarezza: «Il rotolo è un testo ebraico ma le parole sono scritte prima nella direzione giusta e poi al contrario. E i testi dalla forma rotondeggiante non sono esattamente appartenenti alla nostra tradizione», spiega. «Il mercato di testi religiosi falsi è doppiamente grave, attira e confonde chi li acquista per fede o per rispetto della propria cultura».

Le Torah dorate di Damasco

Sono invece probabilmente autentiche le Torah decorate in oro mostrate l’11 maggio scorso dalla tv turca, trovate durante la perquisizione di un’auto: a bordo, quattro ex combattenti del gruppo Faylaq al-Rahman e un cittadino turco diretti a Birecik. Valore stimato 1,86 milioni di dollari, provenienza Jobar, est di Damasco, città la cui sinagoga, 2000 anni e dedicata al profeta Elia, è stata prima saccheggiata e poi distrutta nel marzo 2013 dai bombardamenti dell’esercito siriano. Il gruppo avrebbe «scavato tunnel e setacciato tutti i siti in cerca di tesori ebraici». Il Fronte Jabaht al-Nusra in quei mesi chiese ad Assad la liberazione di alcuni suoi membri in cambio della riconsegna di rotoli della Torah rubati.

Insediata per secoli ad Aleppo, Damasco e Qamishli, la comunità ebraica siriana contava 4.000 persone nel 1992. L’ultima famiglia, gli Halaby, è stata fatta fuggire da Aleppo nel 2015, prima dell’arrivo dell’Isis. «Gli affreschi della antica sinagoga di Dura Europos sono al sicuro al Museo Nazionale. Sono una parte importante del patrimonio archeologico siriano», dice Abdulkarim. Incerto il destino della sinagoga di Jamelia, ad Aleppo. O dei resti di Tadef. Ma dicono che ogni notte, da secoli, una nuvola salga dalla tomba di Esdra senza mai allontanarsi.