Musica, cinema, poesia. Uno studio rivela ?le abitudini e i gusti culturali degli jihadisti. Che vivano nelle Filippine o nelle periferie europee, negli impervi passi montuosi dell’Hindu Kush o alle Maldive, i jihadisti sentono infatti di far parte di uno stesso movimento: accomunati non solo da religione e ideologia, ma anche dalle attività nel tempo libero

Abu Abd al-Malik, nome d’arte del saudita Mohsen al-Dosari, è stato per molti anni il più apprezzato cantante di anashid, gli inni religiosi di incoraggiamento, cantati a cappella senza strumenti musicali, che celebrano Allah e, spesso, il jihad. Le sue canzoni erano tra le più ascoltate su Youtube, dove contava centinaia di migliaia di visualizzazioni. Poi, a partire del 2009, la sua stella ha cominciato a offuscarsi: aveva rinunciato alle canzoni religiose, per dedicarsi a forme d’arte più convenzionali. Sui social network sono piovute critiche pesanti, scomuniche, accuse di apostasia. Rientrate parzialmente qualche anno dopo. Quando, dopo un vero e proprio atto di pentimento, è tornato a mettersi al servizio della causa, celebrando la rivoluzione siriana «contro il tiranno Assad». Soltanto allora, pur non aderendo ad alcun gruppo militante, è rientrato a far parte a pieno titolo della cultura jihadista.

L’idea che esista una cultura jihadista ci fa storcere il naso. Del terrorismo islamista siamo abituati a considerare gli effetti finali, eclatanti. Le battaglie militari, gli attentati sanguinari, gli ostaggi decapitati, i comunicati con cui vengono rivendicate morte e barbarie. Per attribuire un senso a ciò che sembra non averne, volgiamo lo sguardo all’ideologia. Dipartimenti universitari e think tank sfornano ogni mese decine di saggi sul salafismo-jihadista, quell’«ampio e articolato ecosistema di dotta giurisprudenza islamica che ha autorizzato le azioni violente dei militanti in tutto il mondo», spiega Shiraz Maher in Salafi-Jihadism. The History of An Idea (Oxford University Press 2016), la più puntuale ricostruzione del pensiero radicale di matrice islamista. Bombe e dottrina, strategie militari e ideologia monopolizzano la nostra comprensione del jihadismo. Sono fondamentali, ma rischiano di oscurare una componente altrettanto importante. Che integra le altre due, spesso precedendole. Quella culturale.

Per conoscerla, occorre affidarsi a fonti poco consuete: memorie, diari, interviste secondarie, testimonianze giudiziarie, video di propaganda, autobiografie dei militanti, resoconti di ostaggi e disertori, oltre alla gran mole di materiali audiovisivi affidati ogni giorno alla Rete. Così ha fatto per quasi un decennio Thomas Hegghammer, ricercatore al Norwegian Defence Research Establishment e animatore del sito The Bored Jihadi, il jihadista annoiato, dedicato a ciò che fanno i militanti quando non combattono.

Ne è uscito un repertorio unico sulla dimensione culturale, soft del jihadismo. Un inventario delle più diffuse pratiche non-militari, prive di evidenti benefici operativi. Alcune sono spiegate in Jihadi Culture (Cambridge University Press 2017), un libro collettivo di recente pubblicazione. È curato dallo stesso Hegghammer, il quale si dice convinto che, per affrontare la sfida jihadista, occorra conoscere le forme d’arte e le pratiche sociali dei “barbuti”, perché offrono una finestra sul modo in cui il movimento parla a sé stesso. Che vivano nelle Filippine o nelle periferie europee, negli impervi passi montuosi dell’Hindu Kush o alle Maldive, i jihadisti sentono infatti di far parte di uno stesso movimento, pur diviso in correnti e fazioni e polarizzato dall’antagonismo tra lo Stato islamico e al-Qaeda. Formano una vera e propria comunità epistemica, che intrattiene una conversazione costante su questioni teologiche, politiche e strategiche. Circoscritta e minoritaria quanto a numeri assoluti, è una comunità globale non solo per estensione geografica, ma anche e soprattutto per consumi culturali.

La cultura jihadista passa per strumenti diversi – musica, poesia, cinema, iconografia, martirologia, interpretazione dei sogni – ma ha caratteristiche costanti. Attinge alla cultura islamica maggioritaria, declinandola in chiave radicale. Si diffonde tramite processi di appropriazione e rielaborazione. E di progressiva “liberalizzazione”. Come nel caso della cinematografia. I mujahedin afghani che negli anni Ottanta combattono contro l’occupazione sovietica già intuiscono l’importanza delle immagini. Invitano giornalisti e documentaristi a filmare le loro imprese. Ma è solo nel Duemila che i gruppi jihadisti creano “cellule mediatiche” ad hoc. La distribuzione all’inizio avviene attraverso moschee, organizzazioni caritatevoli, librerie, venditori di strada. Poi arriva il web, centrale nella mobilitazione contro l’occupazione statunitense in Iraq.

Il “jihadismo MTV” nasce in Somalia, dove il gruppo al-Shabaab produce video brevi, concitati, dai colori vividi, con animazioni in 3D, contaminato con la cultura pop occidentale. La definitiva professionalizzazione è a opera dallo Stato islamico in Iraq e nel Levante. Oggi, esistono veri e propri generi: i video operativi, i discorsi ideologici, le volontà dei martiri, l’esecuzione degli ostaggi. E i filmati di lungo respiro che chiamano alla difesa dell’Islam, costringendo il mondo dentro una lettura binaria, manichea, caratteristica della cultura jihadista: da una parte i soldati della fede autentica, dall’altra gli infedeli.

Il cinema, la poesia, la musica, le narrazioni condivise, le interpretazioni dei sogni non servono solo a trasmettere dottrina e ideologia. Sono strumenti di autorappresentazione culturale e sociale. Perimetrano i confini della comunità; costruiscono e consolidano l’identità di gruppo; ampliano il bacino culturale nel quale reclute vecchie e nuove possono riconoscersi; nutrono il senso di appartenenza attraverso la soddisfazione emotiva, più vincolante della persuasione cognitiva; forgiano i legami sociali; trasmettono tra le generazioni una cultura minoritaria e sotterranea. Scaldano il freddo dell’ideologia con il caldo delle emozioni. Come quelle derivate dalla lettura di una poesia. Nell’autunno del 2014, la poetessa di corte dello Stato islamico, Ahlam al-Nasr, ha pubblicato la sua prima raccolta ufficiale: 107 poesie, dalle elegie per i combattenti agli inni vittoriosi. Molti osservatori estranei al gruppo di Abu Bakr al-Baghdadi sono rimasti sorpresi. Non gli studiosi della cultura jihadista, interessati al “come” più che al “perché” della scelta di morte. Una scelta favorita anche dalle poesie.
Quelle dei comandanti-poeti come Osama bin Laden o del suo successore alla guida di al-Qaeda, l’egiziano Ayman al-Zawahiri.
E quelle dei militanti meno noti. Come il saudita Isa bin Sad Al-Awshan, che nel 2004 replicava così - presentandosi come un combattente della parola, pronto al martirio - a quanti ne contestavano l’affiliazione jihadista: «Silenzio! Le parole sono per gli eroi / e le parole degli eroi sono già atti...».