Commi, codicilli, deroghe, incoerenze. E veri e propri deliri semantici dei legislatori. Così si corrompe il concetto stesso del vivere sociale

In Italia l’esame di maturità viene regolato da 59 atti normativi (leggi, decreti, circolari, protocolli). Per introdurre le unioni civili, viceversa, è bastato un solo articolo di legge, che però al suo interno si declina in 69 commi. Il nuovo codice degli appalti – celebrato dal governo Renzi come un monumento alla semplificazione – ospitava 181 errori nei suoi 220 articoli, e ha ricevuto 131 modifiche nel giro d’un anno.

Dopo l’approvazione del Jobs Act, dopo la riforma del pubblico impiego entrata in vigore il 22 giugno scorso, ai licenziamenti s’applicano 8 regimi diversi, a seconda dei loro presupposti (giusta causa, giustificato motivo soggettivo, giustificato motivo oggettivo, procedura di licenziamento collettivo e via elencando), del tipo di licenziamento (disciplinare, economico individuale, economico collettivo, discriminatorio), delle caratteristiche del datore di lavoro (grandi imprese, imprese agricole, piccole imprese, settore pubblico).

Risultato: le cause di lavoro crescono (18,7% in più dal 2014 al 2016), il lavoro cala. Ma calano altresì gli investimenti, i redditi, l’innovazione tecnologica, la competitività del nostro Paese. E affonda il senso stesso della legalità, insieme alla certezza del diritto. Per forza: quando le leggi sono troppe s’elidono a vicenda, e in ultimo ciascuno fa come gli pare. Dal pieno nasce il vuoto, l’eccesso di diritto determina un ordinamento lacunoso, senza regole precise per la nostra convivenza.

E se poi all’inflazione normativa si somma il pessimo linguaggio delle norme, ciascun interprete (il giudice, il burocrate, il commercialista, l’avvocato) diventa un legislatore in miniatura, nel senso che crea la regola, invece d’applicarla. Provateci un po’ voi, del resto, a interpretare leggi che suonano come altrettanti abracadabra, che si contraddicono l’una con l’altra senza mai abrogarsi espressamente, che dicono, disdicono, e alla fine maledicono.

Da qui un campionario che avrebbe fatto gola a Ionesco, maestro del teatro dell’assurdo. La costituzione di pegno sui prosciutti (legge n. 401 del 1985). Gli «effetti letterecci», menzionati dal testo unico in materia sanitaria per indicare cuscini e lenzuola delle camere d’albergo. La norma con i logaritmi (art. 39 del decreto legislativo n. 277 del 1991). Le «nuove imprese innovative» di cui straparla la legge n. 388 del 2000 (art. 106). Le «modalità per la sosta dei cadaveri in transito», disciplinate dal regolamento di polizia mortuaria (decreto presidenziale n. 285 del 1990). Il divieto d’usare ruote quadrate, prescritto dal vecchio codice della strada (art. 66). O infine il delirio semantico che avrebbe inondato la Costituzione stessa, se la riforma Boschi fosse stata accettata al referendum: da 9 a 430 parole nel nuovo art. 70, e il Senato competente «per le leggi di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116, terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma». Questo virus non corrompe unicamente l’universo del diritto: no, corrompe anche la nostra vita democratica. Come diceva Hegel, non c’è democrazia se le leggi sono appese tanto in alto da non poter essere lette. Ma a quanto pare la questione non interessa più nessuno.

C’è forse un partito, un movimento, un leader che se ne faccia portavoce? Eppure qualche anno fa è successo, con un soprassalto di consapevolezza, con uno sforzo bipartisan che coinvolse governi di destra e di sinistra, attraversando tre legislature. Fu l’epoca della «Taglialeggi», ossia della ghigliottina automatica per tutti gli atti legislativi anteriori al 1970, con poche eccezioni circoscritte: un meccanismo inventato dalla legge n. 246 del 2005, perfezionato attraverso una serie d’interventi, dopo di che sfasciato, smontato, rovesciato. Così, la delega della Taglialeggi è stata emendata un paio di volte (dalle leggi 15 e 69 del 2009), mentre l’esecutivo con una mano ha tolto (mediante due decreti legge abrogativi, nonché per effetto del decreto legislativo 212 del 2010), con l’altra mano ha aggiunto (per mezzo del decreto «Salvaleggi»: n. 179 del 2009). E in conclusione ne siamo usciti con più dubbi di quanti ne avevamo indosso prima, mistero sulle leggi abrogate e su quelle salvate, i vivi e i morti assiepati in un unico carnaio, nello stesso girone dell’inferno. Sicché non resta che appellarsi a soluzioni drastiche, tranchant. Sia per svuotare il gran mare delle leggi (nel 2007 la commissione Pajno contò 21.691 atti legislativi dello Stato in vigore, cui però bisogna aggiungere almeno altrettante leggi regionali, nonché 70 mila regolamenti della più varia risma). Sia per depurarne il linguaggio dal burocratese che lo rende inaccessibile ai comuni mortali. Da qui due idee per la prossima legislatura, con la speranza che qualcuno le raccolga. Primo: ogni nuova legge ha l’obbligo d’abrogarne due. Secondo: nessuna legge può superare mille parole. Perché nella patria del diritto, a questo punto, la regola più urgente è il risparmio delle regole.