In primo grado era stata condannata all'ergastolo. Oggi, dopo i dubbi emersi dalla perizia disposta dai giudici d’appello di Bologna sull'unica morte sospetta, è arrivata la sentenza

Aggiornamento del 7 luglio 2017
La Corte di assise di appello di Bologna ha assolto perché il fatto non sussiste Daniela Poggiali, 45 anni, ex infermiera alla sbarra per l'omicidio di una sua paziente 78enne all'ospedale di Lugo, nel ravennate.


Da quasi tre anni l’ex infermiera di Lugo Daniela Poggiali guarda la vita scorrerle davanti attraverso le sbarre di una prigione, contando i giorni di una pena senza fine. Da venerdì scorso le cose attorno a un caso giudiziario che ha sconvoltol’Italia sono però mutate drasticamente. La perizia disposta dai giudici d’appello di Bologna sull'unica morte sospetta per cui la Poggiali è stata finora condannata (in primo grado) all’ergastolo ha posto per la prima volta un dubbio importantissimo: quella paziente potrebbe essere morta anche per cause naturali.
 
Il caso di Daniela Poggiali scoppia il 9 ottobre del 2014. Sono le sette di sera e fuori il sole sta per tramontare, quando i carabinieri entrano nella sua casa di Giovecca di Lugo, mettendole le manette ai polsi e portandola in carcere. Attorno alla donna, sospettata per il decesso della paziente Rosa Calderoni avvenuto l’8 aprile di quello stesso anno, in breve tempo cresce un’indagine giudiziaria che la porta ad essere sospettata di decine di morti nei suoi anni di lavoro. La vita di Daniela Poggiali si sgretola poco a poco, anche per via di quelle note fotografie nelle quali l’infermiera era ritratta in gesti irrisori al fiano di una donna deceduta. Prima perde il lavoro e poi nel marzo dell’anno scorso, dopo mesi di processo, arriva per lei la sentenza più dura: il carcere a vita per aver ucciso Rosa Calderoni con una dose letale di potassio. Fine pena mai. 

Il giudice di Ravenna Corrado Schiaretti nelle motivazioni arriverà a descriverla come una donna “fredda, intelligente e spietata. Nemmeno lei sa quanti pazienti ha ucciso”. 

A inizio di quest’anno è iniziato il processo di appello a Bologna, sospeso per via di una nuova perizia richiesta direttamente dai giudici per far luce su cosa sia veramente accaduto la mattina di quell’otto aprile di tre anni fa in ospedale. 

Oggi, a oltre un anno da quella condanna e con un nuovo processo ancora tutto da giocare, i tre periti nominati dai giudici hanno detto la loro, mettendo per la prima volta in dubbio l’omicidio. In oltre settanta pagine gli esperti Gilda Caruso, docente di patologia cardiovascolare dell’università di Bari, Mauro Rinaldi e Giancarlo Di Vella, rispettivamente docenti di cardiochirurgia e di medicina legale dell’università di Torino, danno conto dei due mesi di analisi svolte sul caso Poggiali-Calderoni. Ma andiamo per gradi tra le pieghe di un documento che, giovedì e venerdì, sarà sicuramente alla base di una lunga battaglia in aula tra il procuratore generale Luciana Cicerchia e gli avvocati dell’ex infermiera Lorenzo Valgimigli e Stefano Dalla Valle. 
 
La causa del decesso della paziente
Rosa Calderoni morì per cause naturali? Questa è la prima domanda su cui hanno dovuto dare risposta i periti, secondo cui «in definitiva tutti i riscontri, clinici e laboratoristici, non hanno consentito di identificare una singola causa patologica naturale, a insorgenza acuta, idonea a cagionare, con certezza e alta probabilità, la morte della paziente. Deve osservarsi – aggiungono – che Rosa Calderoni fosse portatrice di un insieme di patologie croniche e che qualunque fattore endogeno o esogeno avrebbe potuto determinarne lo scompenso». Una risposta aperta a più soluzioni dunque, ma che per la prima volta apre le porte anche a una probabile causa naturale per la morte di quella paziente di 78 anni. 

Il potassio come strumento per uccidere 
Vi è stata una indebita somministrazione di potassio alla paziente? Una seconda domanda, su cui gli esperti hanno risposto ponendo ancora una volta un dubbio. Stando ai professori il quadro clinico della Calderoni era «solo in parte compatibile con l’iperkaliemia (eccesso di potassio nel sangue ndr) a concentrazioni letali». In primo grado, su questo punto, fu fondamentale la testimonianza della figlia di Rosa Calderoni, che ricordò come la mattina di quell’8 aprile del 2014 l’ultima infermiera a entrare nella stanza di sua madre per somministrarle le cure fu proprio Daniela Poggiali. L’ex infermiera stette all’interno della stanza per 5-10 minuti, ma proprio su questo punto emergono nuovi elementi sottolineati dai periti. La paziente quella mattina aveva infatti due accessi venosi, uno al piede e l’altro alla giugulare. Secondo Carusi, Rinaldi e Di Vella «la somministrazione rapida e letale di potassio sarebbe stata possibile solo dalla giugulare», ma questa «avrebbe dovuto causare l’arresto cardio-respiratorio nelle immediatezze dell’infusione». La Calderoni morì invece 60 minuti dopo. La somministrazione nel piede, ritenuta però impraticabile, al contrario avrebbe causato forti dolori, mai accusati dalla paziente. 

Il dibattito sul metodo Tagliaro
Il potassio è sempre stato, fin dal primo giorno, l’elemento cardine del processo a Daniela Poggiali. Secondo gli inquirenti fu proprio usando l’effetto potenzialmente killer della sostanza che l’infermiera tolse la vita a quella paziente di 78 anni. La conferma, allora, arrivò dall’analisi dell’umor vitreo della donna, nel quale il consulente dell’accusa professor Franco Tagliaro trovò valori «sballati» di potassio a 56 ore dal decesso. Anche i periti dei giudici hanno potuto analizzare il reperto, giungendo però a conclusioni che, ancora una volta, pongono diversi dubbi su tutto il caso. Dopo aver ricordato che sulla concentrazione di potassio influiscono decine di fattori, tra cui età, stato di salute (il diabete mellito, come tra l’altro aveva Rosa Calderoni, può alterare i valori di base), temperatura del corpo e che in letteratura non c’è consenso unanime su quale sia l’equazione più affidabile per il calcolo della presenza di potassio nell’organismo umano, anche per via dell’alto margine di errore, i professori hanno preso atto che «il potassio rinvenuto risulta superiore al valore atteso, ma limitatamente al campione di riferimento e alla metodologia di indagine usata». Ossia il noto metodo Tagliaro più volte contestato dalla difesa.

Il depistaggio sul prelievo di sangue 
Un altro punto fondamentale dell’inchiesta, riguardava la nota emogasanalisi delle 9 del mattino di quel tragico 8 aprile eseguita su Rosa Calderoni. Secondo l’accusa quell’esame, che mostrava valori della paziente nella norma, non era veritiero in quanto la Poggiali avrebbe sostituito le sacche di sangue per evitare di essere scoperta. Secondo i periti quel sangue è invece «compatibile con il quadro clinico della paziente». Tradotto: nessun depistaggio.

Le cartelle cliniche 
L’ultimo interrogativo posto dai giudici d’appello riguardava invece la presenza in reparto di una paziente sottoposta a cure a base di potassio. Dall’esame delle cartelle cliniche, stando ai tre esperti, in quei giorni una donna era «sottoposta a terapia endovenosa con potassio in pronto soccorso» per una grave ipokaliemia. 
Sei quesiti precisi e dettagliati, a cui sono seguiti risposte che, aprendo di fatto le porte a una possibile morte naturale di Rosa Calderoni, hanno portato un dubbio pesantissimo all’interno del processo. E venerdì, giorno decretato per la sentenza di appello, Daniela Poggiali avrà la risposta che attende: conferma della colpevolezza oppure no?