Umberto Curi: «Lo straniero porta sempre un dono. Di fronte a un fenomeno destinato a crescere è necessaria una politica razionale dell'accoglienza per evitare che una marea pacifica di disperati si trasformi in un esercito». L'incontro a Napoli il 23 marzo

«Se non ci si ostinasse a coltivare speculazioni politiche, spesso miserabili, si dovrebbe riconoscere che il fenomeno delle migrazioni è inesorabile e che misure come la chiusura delle frontiere o la costruzione di muri sono ispirate a un meschino tentativo di garantirsi effimeri consensi elettorali, ma sono inattuabili e autolesioniste». Umberto Curi, professore emerito di Storia della Filosofia all’Università di Padova, boccia senza appello quella tentazione di chiudere le porte di fronte a flussi migratori sempre più massicci che sembra aver contagiato sia l’Europa sia gli Stati Uniti. Da filosofo, Curi si è occupato molto del tema dello “straniero”, dedicandogli un volume pubblicato nel 2010. E il 23 marzo, al Museo archeologico nazionale di Napoli, ne discuterà insieme al professor Gennaro Carillo, nel corso di un incontro intitolato “Le leggi dell’ospitalità” e inserito nell’ambito della rassegna “Fuoriclassico”.

Professore, chi è lo straniero oggi?
«Partiamo dalla constatazione che i termini con cui si definisce questa figura sono inadeguati: “straniero”, ad esempio, è una parola che esprime un concetto negativo, perché indica colui che è estraneo alla comunità di riferimento. Il fatto che si usino anche molti altri termini, come migrante, immigrato, extracomunitario, mostra poi la difficoltà a trovare una definizione univoca e, di riflesso, la più profonda difficoltà a inquadrare e comprendere la figura dello straniero. Le carenze nel linguaggio, insomma, rivelano la povertà degli strumenti di analisi. Da questo punto di vista, dovremmo imparare dalla cultura classica».

Gli antichi avevano maggiore consapevolezza dello “straniero”?
«Certo. Nelle lingue di derivazione indoeuropea come il latino e il greco vi era un unico termine per tutte le figure appartenenti alla sfera dell’alterità: la parola greca xenos e quella latina hostis venivano usate indifferentemente per dire altro, stravagante, straniero, ospite, nemico e così via. Questo ha una fondamentale conseguenza: lo straniero, infatti, diventa immediatamente e automaticamente anche ospite e la scelta di accoglierlo non è facoltativa, ma obbligata e regolata da consuetudini. Per avere qualche esempio basta leggere l’Odissea, il poema omerico dell’ospitalità. Ricordo l’episodio di Ulisse che approda, naufrago, sull’isola di Nausicaa: l’eroe ha un aspetto poco rassicurante e, vedendolo arrivare, le ancelle della principessa fuggono spaventate. Ma è proprio Nausicaa a fermarle, rammentando loro che l’accoglienza è un dovere e invitandole a prestare ogni cura necessaria al nuovo ospite».

E perché lo straniero va accolto?
«Si tratta di una figura ambivalente che porta con sé, in maniera inscindibile, una minaccia, quella rappresentata dal diverso, dal nuovo, ma pure un dono, cioè quello che autori come Jacques Deridda hanno individuato nel conferimento della nostra identità: io, infatti, definisco chi sono soltanto nel rapporto con l’altro da me. Del resto, tuttora in alcune zone dell’Italia meridionale permane l’abitudine di fare un regalo all’ospite proprio per contraccambiare il dono che ci fa venendo a casa nostra».

Lo straniero, però, rappresenta pur sempre una minaccia ai nostri occhi. Come dobbiamo reagire?
«Avere paura è inevitabile, ma è puerile farsi dominare da questo sentimento: bisogna sapersi mettere in discussione. È paradossale come, da un lato, andiamo sempre più alla ricerca dell’altro, facendo viaggi all’estero per cui siamo disposti a spendere molti soldi e ad affrontare talvolta anche dei pericoli, mentre, dal lato opposto, quando questo altro ce lo troviamo in casa non siamo capaci di aprirci. Oggi prevale la paura e spesso c’è un impegno ad alimentarla piuttosto che a razionalizzarla. Citando ancora Deridda, voglio ricordare come occorra distinguere tra ospitalità e accoglienza: la prima riguarda il modo di proporsi sotto il profilo culturale ed è incondizionata; la seconda, invece, è condizionata dal quadro storico in cui si colloca l’incontro tra noi e l’altro e dovrebbe basarsi su pratiche concrete corrispondenti a politiche realiste e realizzabili».

Insomma, se si gestisse razionalmente il fenomeno migratorio e si programmassero interventi sensati di accoglienza, si potrebbe contenere la paura di chi vede arrivare flussi di persone così consistenti?
«Esatto. Dobbiamo capire che, indipendentemente da qualunque misura restrittiva possa essere adottata, il fenomeno è destinato ad aumentare e che non si può certo arginare con barriere di filo spinato. La causa delle migrazioni sono i clamorosi squilibri economici esistenti a livello globale. I quattro quinti della popolazione dispongono di un quinto delle risorse totali. Secondo la Fao, un miliardo e 200 milioni di persone vivono con un dollaro al giorno. È normale che queste masse si spostino dove c’è più ricchezza nel tentativo di sopravvivere. L’immigrazione è il più importante tema politico di questa fase della globalizzazione e dovrebbe essere al centro del dibattito. Non ci resta che studiare e realizzare politiche che siano in grado di governare tali movimenti, senza far confliggere la presenza degli immigrati con gli interessi degli autoctoni. Il punto è che per farlo serve senso di responsabilità, mentre finora si è preferito puntare su un miope calcolo utilitaristico, eludendo i veri problemi ed evitando di addossarsi scelte che possono essere dolorose. Mantenere e diffondere la paura, inoltre, significa garantirsi il controllo del consenso sociale».

Anche quando i migranti vengono accolti, però, c’è chi approfitta della situazione. In Italia non sono mancati casi di illegalità nella gestione dei centri di accoglienza.
«Questi abusi sono un sintomo della decadenza nella vita pubblica del nostro Paese e della più generale crisi del sistema politico-istituzionale. Sarebbe stato necessario procedere a riforme della forma democratico-rappresentativa, ma non si è fatto. Il deterioramento delle istituzioni ha così portato a fenomeni di corruzione divenuti ormai modalità fisiologiche di funzionamento del sistema. Non si può, infatti, parlare di mero malcostume, se c’è chi gode immaginando di lucrare su tragedie come il terremoto o l’arrivo di disperati sulle nostre coste. E per reazione a tutto ciò, si è favorita l’espansione del cosiddetto populismo».

Gli stranieri spesso si sono ribellati alle pessime condizioni di vita o allo sfruttamento a cui sono sottoposti. Mi riferisco, per quanto riguarda l’Italia, alle rivolte dei braccianti di Rosarno o a quelle degli africani di Castel Volturno e di Napoli contro i soprusi della camorra. Sono loro a rivendicare diritti a cui noi abbiamo talvolta rinunciato?
«Sì. Anzi, dovremmo essere sorpresi dal numero limitato e dalle forme non particolarmente aggressive di queste ribellioni. Finché non verranno attuate politiche lungimiranti, la presenza di immigrati rischia di trasformarsi in una bomba sociale. Basti pensare a quanto è successo in Francia o in Belgio. Se si coltiva la marginalità, se si specula sulla pelle di queste persone, è inevitabile che prima o poi arrivino reazioni anche violente. Se questa marea umana continuerà a trovare muri, invece che chiedere aiuto sarà indotta a pretenderlo. Così, spinta da disperazione e odio, la fiumana pacifica potrebbe tramutarsi in un vero esercito: sottovalutare il pericolo è demenziale».

Il neo presidente americano Donald Trump sforna divieti di ingresso per migranti provenienti da vari Paesi. Nel Vecchio continente si rafforzano partiti xenofobi. Esiste uno Stato virtuoso nella gestione dell’immigrazione?
«Innanzitutto, occorre distinguere tra le decisioni di Trump e quelle dei governi europei: nel nostro continente ci sono alcune posizioni arcaiche, ma ancora non si è arrivati a isterie xenofobe e, al momento, movimenti come quello di Marine Le Pen in Francia restano fuori dal centro di governo. Pensando agli Stati Uniti, invece, uno dei baluardi contro l’imbarbarimento è stato il controllo di legalità operato dai giudici, che hanno bloccato i bandi firmati dal presidente. In ogni caso, non mi pare esistano modelli particolarmente virtuosi, a parte singole iniziative. Negli ultimi anni, comunque, con i suoi sforzi, l’Italia ha evitato il verificarsi di ecatombi nel mar Mediterraneo: pur con tutte le insufficienze e le storture riscontrate, bisogna riconoscere che il nostro Paese ha contribuito a salvare vite umane e in questo rappresenta un modello all’avanguardia».