I seguaci  del Califfo, sconfitti in Iraq, ora puntano su Kabul

Gli altoparlanti delle moschee gracchiano per qualche secondo. Poi il suono si fa più nitido. Le voci si accavallano. I toni sono perentori. Il messaggio, univoco: «Tutti gli uomini sono chiamati alla lotta. Chi non si unirà, avrà la casa bruciata». È il 3 luglio del 2015, nei giorni del Ramadan. Siamo nella parte più orientale della provincia afghana di Nangarhar, a due passi dal confine con il Pakistan. Terra di traffici transfrontalieri. Sul dorso dei muli, lungo accidentati sentieri di montagna passano armi, oppio, jihadisti. Dagli altoparlanti si invoca l’aiuto di Allah il misericordioso. La battaglia è cruciale. Bisogna sconfiggere i militanti della Provincia del Khorasan dello Stato islamico, i seguaci del Califfo al-Baghdadi che vogliono intestarsi il jihad in Afghanistan. Tutti gli uomini in età adulta escono dalle basse case di paglia e fango. Si uniscono ai talebani. I mullah, maltrattati e umiliati, covano rancore.

I residenti, vittime di abusi e testimoni di esecuzioni, sono sul piede di guerra. Quei nuovi arrivati che pretendono di praticare il vero Islam e l’autentico jihad sono un pericolo. Vanno combattuti. Presi alla sprovvista, gli affiliati al Califfo vengono uccisi. Altri battono in ritirata. Sulle loro teste, nei giorni successivi si alzano i bombardieri statunitensi. Il 7 luglio, l’annuncio delle vittime eccellenti, tra cui Shahidullah Shahid, già portavoce del Tehreek-e-Taliban, i talebani pachistani. L’uomo che ha tenuto le fila dei rapporti tra la branca locale dello Stato islamico e la casa-madre in Siria e Iraq. E che più di altri ha insistito affinché il Califfo riconoscesse ufficialmente, nel gennaio 2015, la nascita della “Provincia del Khorasan”.

Oggi, a più di due anni di distanza, possiamo cominciare a tirare le somme su una rivalità geograficamente circoscritta, ma dal significato globale. In gioco non è un Paese qualsiasi, ma l’Afghanistan. Culla del jihad contemporaneo, è il terreno di battaglia su cui si sono fatti le ossa terroristi come Osama bin Laden e Abu Musab al-Zarqawi, il padre putativo dello Stato islamico, leader di al-Qaeda in Iraq. Qui hanno trovato ispirazione per i loro pamphlet sulla violenza purificatrice ideologi come Abdallah Azzam, l’inventore dell’internazionalismo jihadista, e Abu Musab al-Suri, l’ingegnere siriano propugnatore del jihad decentralizzato e pulviscolare, cifra dell’islamismo armato contemporaneo. E qui talebani e Stato islamico continuano a combattersi a vicenda. Quasi ogni giorno.

«Per i talebani, la battaglia contro la Provincia del Khorasan rappresenta una problema rilevante. In alcune aree, hanno destinato gran parte della loro forza militare a questo obiettivo, riducendo lo sforzo contro il nemico principale, il governo di Kabul», spiega all’Espresso Antonio Giustozzi, il più autorevole studioso dei “turbanti neri”. Oggi, il bilancio è comunque a loro favore. Il tentativo del gruppo del Khorasan di aprire nuovi fronti militari nelle province di Helmand, Farah, Logar e Zabul è stato respinto. Vanta una presenza significativa solo in quelle di Nangarhar e Kunar. «In Nangarhar il territorio controllato si è già ridotto significativamente, ma sono ancora visibili e non gli mancano uomini e risorse», precisa da Kabul Borhan Osman, ricercatore dell’Afghanistan Analysts Network. «La seconda roccaforte è nel Kunar», a ridosso delle aree tribali pachistane, «ma lì non hanno grandi capacità operative». Per supplire e mostrarsi più forti di quanto siano, gli uomini del Califfo hanno puntato su Kabul, la capitale. Dove «hanno ereditato la rete di alcuni veterani della militanza armata, a cui si aggiungono i più giovani, nuovi radicali che hanno abbracciato la violenza, ma privi di esperienza», spiega all’Espresso Osman. Una rete poco strutturata e in difficoltà, «perché i talebani controllano le aree intorno alla capitale e ostacolano il trasferimento di armi, esplosivi, materiali». Ma pericolosa. «Hanno la capacità operativa di compiere attentati suicidi e, con minore regolarità, attacchi più complessi».

Tra gli attentati più sanguinosi c’è quello del 23 luglio 2016. Quando due kamikaze si sono fatti esplodere nella rotonda De Mazang di Kabul, affollata da migliaia di manifestanti, perlopiù hazara, la minoranza sciita. Più di 80 le vittime. Ma sono già centinaia quelle riconducibili al gruppo. Alcuni attentati sono stati rivendicati sia dalla Provincia del Khorasan sia dai talebani. Altri rimangono senza paternità. In un gioco di propaganda in cui l’obiettivo polemico primario non è più il governo di Kabul o gli americani invasori, ma i finti jihadisti. Una guerra «fratricida» la chiama qualcuno. Comunque una guerra interna, al di là delle differenti posture - globale per gli affiliati al Califfo, domestica per i talebani - dei due gruppi. Nel movimento talebano questo antagonismo «ha provocato lotte interne e contrasti molto aspri», racconta Giustozzi. La leadership ufficiale è a favore della campagna contro la branca locale dello Stato islamico, «ma è un errore strategico per fazioni importanti, inclusa quella di Sirajuddin Haqqani», a capo dell’omonimo gruppo, i duri e puri che negano ogni negoziato a suon di stragi.

L’attuale leader dei turbanti neri, Haibatullah Akhundzada, fatica a tenere a bada i suoi. Crescono le spinte centrifughe e i malumori. «Per molti è inaccettabile portare avanti una battaglia con i soldi russi e iraniani». I rapporti dell’Iran con i talebani non sono una novità. Dal 2014, con l’affermazione dello Stato islamico, i Paesi del Golfo hanno dirottato risorse verso il Califfo. Un investimento più produttivo, con il suo settarismo confessionale anti-sciita. Teheran ha colmato il vuoto, accelerando una politica già in atto. Più recente l’attivismo russo. Dopo essere stata per anni alla finestra, preoccupata per l’influenza dello Stato islamico alle porte di casa Mosca è ora entrata a gamba tesa nella partita afghana. Zamir Kabulov, inviato del presidente Putin in Afghanistan, lo scorso dicembre ha sintetizzato la nuova politica: i talebani diventano i nostri alleati contro l’espansione di Abu Bakr al-Baghdadi in Asia centrale e Caucaso. In cambio, gli concediamo una patente di legittimità politica. E - dicono gli americani - armi e soldi.

Ma i rapporti con gli iraniani e in particolare gli ex invasori russi non piacciono a tutti i talebani. E offrono il destro ai propagandisti della Provincia del Khorasan. Per i quali mullah Omar, storico leader degli “studenti coranici”, rimane un’autorità indiscussa e rispettata. Ma i suoi eredi hanno abbandonato la retta via. Troppo pragmatismo. Troppi legami con gli sponsor stranieri. Troppa malleabilità strategica e ideologica, ripete Radio Califfato, che trasmette su FM nella provincia di Nangarhar e parte del Kunar. Le nuove traduzioni in lingua dari, pashto e urdu dei libri di Ibn Taymiyya e Muhammad Ibn Abd al-Wahhab, alla base del salafismo-jihadista, si trovano facilmente sulle bancarelle di Jalalabad, il capoluogo di Nangarhar dove i pashtun con barba lunga e turbante camminano tenendosi affettuosamente per mano. I discorsi dei leader dello Stato islamico passano sugli schermi dei telefonini con schede Roshan ed Etisalat. Di mano in mano fuori dalle moschee.

La radio arriva tra gli studenti della popolosa università di Nangarhar. Negli stretti dormitori di Darunta, alle porte di Jalalabad, nelle stanze con i letti a castello e un fornelletto per cucinare riso e tè circolano Dvd con le gesta dei jihadisti siriani. Qualcuno ci crede. C’è chi abbandona gli studi e va a combattere. Ma sono pochi. Minoritari. Tanto nei centri urbani quanto sui fronti di battaglia. Sui numeri degli affiliati al gruppo Provincia del Khorasan non c’è chiarezza. «A seconda dell’interlocutore, i numeri sono diversi. La Nato ha stime al ribasso: mille in Nangarhar. L’esercito afghano raddoppia il numero. Loro stessi sostengono di essere 20.000 in tutto il Khorasan. Io ritengo che siano almeno mille in Afghanistan», sostiene Giustozzi. Per Borhan Osman «sono tra i mille e i tremila». L’oscillazione dipende anche «dall’alto numero di militanti eliminati e dal flusso di nuove reclute». Nel reclutamento contano i soldi e l’ideologia. «L’elemento ideologico attrae i militanti più radicali di gruppi già esistenti, dai talebani afghani a quelli pachistani, cuore del gruppo, a gruppi come Jaish-e-Mohammad e Lashkar-e-Jangvi. Ma ci sono anche gli opportunisti e gli imprenditori del jihad, per i quali la militanza è una carriera», spiega Osman.

Numeri così ridotti, dicono in molti a Jalalabad, non giustificano la baraonda degli americani. Il 13 aprile scorso nel distretto di Achin, nel Nangarhar, è stata sganciata la «madre di tutte le bombe», 11 tonnellate di esplosivo su un complesso di tunnel. Più che una necessità militare, un colpo mediatico. Con cui Trump gonfia il petto, esibisce i muscoli e lascia carta bianca ai militari. Ma che alimenta la fabbrica più produttiva dell’Afghanistan. Quella dei rumors. Qui più che altrove le dicerie contano come i fatti. Qui come altrove sono rilanciate da politici opportunisti. «L’ennesima farsa degli americani», bisbigliano nei bazar di Jalalabad e ribadisce ad alta voce in tv l’ex presidente Hamid Karzai. Ad aprile ha condannato «l’uso disumano e brutale del nostro Paese come terreno di sperimentazione di nuove, pericolose armi». Pochi giorni fa ha assicurato che i militanti dello Stato islamico «usano le basi militari degli americani».

La domanda più generale che pone è, però, quella di molti afghani. «Perché siamo meno sicuri oggi, rispetto a prima che arrivassero gli americani?». Lo certificano i rapporti di Unama, la missione dell’Onu a Kabul: le vittime civili aumentano. Lo ribadiscono i resoconti di Sigar, l’organismo che per il Congresso Usa fa le pulci sui soldi spesi in Afghanistan: i talebani guadagnano terreno. Lo riconosce la Croce rossa internazionale, che dopo 30 anni sta riducendo drasticamente la propria presenza. Lo testimonia il numero di afghani che abbandonano il Paese, respinti dall’Unione europea. Chi rimane, è sempre più preoccupato per la dose di settarismo confessionale che lo Stato islamico vuole iniettare in un conflitto già complicato. Ma dopo quattro decenni di guerra gli anticorpi sono forti: «Finora gli afghani hanno dimostrato una grande resilienza», ci dice Thomas Ruttig, co-fondatore dell’Afghanistan Analysts Network. «Non ci sono state reazioni anti-sunnite da parte degli sciiti. E ad Herat e altrove, sciiti e sunniti hanno manifestato insieme, in un gesto simbolico, altri hanno donato sangue per le vittime. Suona incoraggiante per il futuro».