La sentenza dimostra che chi racconta storie verificate e non diffamanti non deve avere paura di essere censurato. Nemmeno in Vaticano. E che vale la pena combattere battaglie di principio

Se il processo in Vaticano a due giornalisti e a due libri è stato una farsa, la sentenza finale ha dato un senso pieno a una battaglia durata sette mesi. Una battaglia per la libertà di stampa che non è stata vinta solo da due giornalisti: la vittoria dei principi liberali - al netto dell'improbabile carcerazione - è una vittoria colettiva. Della stampa, e dell'opinione pubblica che ha diritto ad essere informata. Sempre, anche quando si tratta dei segreti finanziari del Vaticano.

Ieri sera i giudici di papa Francesco non hanno solo assolto la libera stampa. Hanno fatto letteralmente a pezzi l'impianto accusatorio del promotore di giustizia, che considerava il sottoscritto e Gianluigi Nuzzi colpevoli di aver «concorso moralmente» nella divulgazione di notizie riversate, grazie «all'impulso psicologico» che con la loro «presenza e disponibilità ha contribuito a rafforzare il proposito della rivelazione delle notizie» di due funzionari vaticani, monsignor Balda e Francesca Immacolata Chaouqui. «Chi riceve notizie normalmente non è punibile. Ma stavolta i giornalisti sono stati una ragione essenziale per divulgare le notizie», hanno spiegato i magistrati nella requisitoria.

L'assurdità di tale assioma è stato spazzato via da una sentenza coraggiosa: perché la non punibilità di due cronisti italiani non passa solo attraverso «il difetto di giurisdizione» (colpevolmente nelle cronache di oggi si evidenzia questa come unica motivazione del proscioglimento), ma anche per l'assenza di qualsiasi reato tra quelli contestati: assoluzione perchè il fatto non sussiste, ha spiegato il presidente della corte. Avessimo commesso il reato in concorso con Balda e Chaouqui (entrambi considerati colpevoli) saremmo risultati colpevoli anche noi: per la legge della Santa Sede i cittadini stranieri che compiono reati in combutta con funzionari pubblici vaticani sono sempre giudicabili, infatti, dai tribunali del Papa.

Non solo. La corte ha spiegato che - grazie al «diritto divino» - la libertà di stampa deve essere sempre tutelata. E che per questo pubblicare notizie vere e di interesse pubblico, non può essere considerato reato nemmeno dietro le sacre mura.

I giudici non hanno dunque messo solo una toppa a un'istruttoria che ha causato in tutto il mondo gravi danni d'immagine alla Chiesa e al pontificato di papa Francesco. Ma hanno chiuso una vicenda complessa con una sentenza storica, almeno per il giornalismo d'inchiesta: anche in uno stato teocratico chi fa il giornalista e pubblica notizie verificate e non diffamanti non deve avere paura di essere censurato o finire in carcere.

Credo che portare due gioralisti dietro le sbarre sia stato un grave errore, etico e comunicativo. Ma l'epilogo cancella ogni amarezza: perché la sentenza è coerente con il vento progressista e riformatore che soffia da  Santa Marta, e perchè una battaglia di principio è stata vinta. Non era scontato.