Tor Sapienza, La Rustica, Tor Tre Teste, Ponte di Nona. Niente parchi, piste ciclabili o raccolta differenziata. Discariche, costruzioni abusive, campi nomadi. Ecco il grande rimosso della Capitale, ignorato dai candidati sindaci (Foto di Giancarlo Ceraudo)

«Ponte di Nona scoppia?». «No, nun scoppia. Regge». «E Tor Bella Monaca?». «Torbella regge. Scoppia Torre Angela». Il tema appassiona il benzinaio del distributore in zona La Rustica, uscita 15 del Grande Raccordo Anulare. Il Collatino, invece, «ha sfondato»”: l’omicidio morboso e atroce del ragazzo Luca Varani ad opera di due amici ha magnetizzato secondo lo spartito classico della cronaca nera tutta la quota di “male” che il quartiere teneva compresso, portandolo su giornali e Facebook. La catarsi della fama è però precaria: «Le strade so’ perbene, il marcio sta dentro casa». Epicentro effimero è stata Tor Sapienza, a un chilometro da qui. Alla fine del 2014 la “rivolta” di alcuni residenti contro i profughi ospitati in un edificio dismesso polarizzò gli sguardi d’Italia sul teatro primitivo della guerra tra poveri. Giovandosi della ribalta, spuntarono politici come comparse incongrue; gli immigrati furono traslati e dispersi; ora qui, stando ai commercianti di via Morandi, si vive benissimo, «non fosse per i rom».

Il tridente delle consolari Tiburtina, Collatina e Prenestina, con l’appendice della Casilina sotto cui si incista la dispendiosa, leggendaria Metro C, racchiude i Municipi V e VI. È il grande rimosso di Roma, ignorato infatti, se non per qualche photo opportunity del degrado, dai candidati sindaci nella scombiccherata campagna elettorale.


È il Far East di Roma, triangolo il cui vertice affonda dentro Porta Maggiore, e la cui base, ad oriente, è una corda tesa tra la barriera montuosa di Tivoli e Palestrina; oltre, è già quasi terra d’Abruzzo, mare, Albania.
A nord, la Tiburtina, con le fabbriche dall’architettura post-boom e pre-Cernobyl, e quelle successive coi vetri a specchio che guadagnarono all’area il nomignolo di Tiburtina Valley a mimesi aspirazionale di quella terra di California dove si inventava il futuro, è oggi un nastro perennemente ingorgato, disseminato di casinò e sale bingo stile Las Vegas o Nova Gorica, annunciate da led contundenti che pulsano al ritmo di musiche latino-americane.

La delegazione dell’anagrafe, stile terziario fantozziano, registra da anni affluenza di romani sballottati tra piani e sportelli, in un caldo tropicale complicato da vetri anti-sfondamento e soffitti come di lamiera. Similmente totalitaria la filiale dell’Agenzia delle entrate a La Rustica, frutto della politica del decentramento poi anche veltroniana.

Verso est, agglomerati abitativi collegati da strade butterate di buche che la pioggia rende profonde, invisibili e infide (la buca: entità resa epica dalla demagogia, evocata dai candidati sindaci come in un rito apotropaico): mentre li si attraversa, cambiano nome generando l’impressione stuporosa del sempre uguale.

Questa è una periferia indocile, non nel senso caro ai nostalgici del pasolinismo. È un suburbio debilitato che rifiuta di farsi raccontare con le categorie neorealistiche, e tantomeno con quelle futili, postmoderne, del cultural jam, dello sprawl urbano, della gentrification. Questo non è il Pigneto dei trans e dei film maker, col fast food greco, i parrucchieri etiopi e lo spaccio di eroina e cocaina mappato su Google dagli abitanti in chiave di denuncia epperò utile anche a eventuali acquirenti. Non ha l’appeal di Torpignattara, scelta dai reporter del degrado come passabile banlieue romana (ma l’unico delitto con protagonisti gli immigrati è stato quello di un diciassettenne italiano che ha ammazzato un pakistano). Quello che accade qui, nella quotidianità neghittosa di traffico, attese alle fermate dei bus, file alla Asl, accoltellamenti nei palazzetti di salsa&merengue, non è telegenico. Quando scoppiò Tor Sapienza, qualcuno prese un taxi da piazza Mazzini e raccontò l’avventura allucinata con la curiosità naturalistica di un safari a piedi. La Collatina è l’hic sunt leones della geografia tollerabile. Le ragazzine rom di viale Togliatti non sono le baby-squillo dei Parioli e dunque non partecipano di un’epica croccante. I bengalesi che si prostituiscono in via Longoni, boulevard a sei corsie sede dell’Inps e dell’ospedale americano, non si prestano a narrazioni inclusive o dem.

A Salone, discariche abusive (e fino a poco tempo fa anche vagoni dismessi gonfi di amianto) circondano il campo nomadi. Si raggiunge via dell’Omo, l’ingresso nella Chinatown: tra magazzini di abbigliamento e fabbriche-canili, spunta la pagoda, stupenda, di un tempio buddista, inaugurato addirittura da Alemanno. Sullo sfondo, la chiesa di Richard Meier a Tor Tre Teste, con la triplice vela che si erge tra le case popolari come un’unghia sfaldata, racchiude il circo livido di Tor Bella Monaca in un fotogramma alla Antonioni. Si percorre via di Torre Angela,un’agglutinazione di case, minimarket, pizzerie a taglio, ricevitorie del lotto, perplessi che possa scoppiare. Ma, in effetti, è tutto incontrollabile e slacciato, come se la borgata fosse stata tirata in aria e lasciata cadere.

La Collatina è il nulla asfaltato. Le costruzioni intensive hanno causato la scomparsa del paesaggio. Le centraline dell’inquinamento atmosferico schizzano più che a San Giovanni. Antenne e ripetitori, neanche mimetizzati ad alberi come nei quartieri-bene, sovrastano piazzole di cemento da cui spuntano arbusti stanchi.
Sono cresciuta a Lunghezza, famosa per essere un’uscita della A24 Roma-L’Aquila e sede di un castello - già teatro di vicende di Papi, schiaffi, stupri, cacciate da Roma e altre leggende divertenti e sanguinose - oggi location di un raccapricciante parco a tema (“Il fantastico mondo del fantastico”).

L’antica Collatia è oggi il risultato di stratificazioni di abusivismo, condoni, speculazioni e edificazioni dissennate. Case di proprietà di un ex-ceto medio di pensionati, impiegati, partite Iva, la fanno somigliare a una new town post-terremoto. L’unica stazione delle FFSS serve tutto il bacino della zona e con ritardi ormai mitologici lo porta a Roma. Accanto, il neo-quartiere-outlet Ponte di Nona rifulge con una bruttezza da Brianza malriuscita: la superfetazione delle “unità abitative” del palazzinaro Caltagirone, che ha imposto una toponomastica egopatica auto-dedicandosi il vialone centrale della finta borgata (ma i residenti hanno battezzato sarcasticamente “via Mejo de Niente” una strada mai inaugurata), ha scassato l’apparenza di contado che circondava Lunghezza e ne ha fatto una scena contesa tra sbraco e decoro.

Qui, tra moschee abusive, chiese gospel e tolette per cani, coppie con mutui esorbitanti risiedono accanto a occupanti abusivi e a legittimi assegnatari delle case popolari, nello stesso quadrato suburbano, in un inedito modello Scampia: legittimato dal rogito, dalla signorilità delle tende parasole sui balconi di cemento armato, dei gazebo Ikea davanti a bar e nail center. L’apertura nel 2007 del “centro commerciale più grande d’Europa” ha spostato il baricentro della zona. Le famiglie vi passano i week end, tra il cinema, il McDonald’s e le diligenze in plastica di un ristorante Old Wild West.

Tristezza e mortificazione uscendo da Lunghezza: l’ufficio postale, una frutteria bengalese, un alimentari Transilvania. Imprese funebri low cost promettono servizio dignitoso con carro regolamentare (ma c’è chi sospetta che il primo viaggio, quello eventuale dall’ospedale, lo facciano col furgone dei traslochi).
Qui non ci sono parchi, piste ciclabili: Roma est è l’anti-Roma nord, anti-veltroniana nelle cose, nell’anima. Non è mai arrivata l’estate romana: le feste, con le bancarelle bengalesi, sono quelle dei santi da cui prendono nome le parrocchie, edifici che potrebbero essere ugualmente palestre bielorusse.

Questo Stato-canaglia è la coscienza sporca di Roma. La differenziata imposta da Marino, accolta con diffidenza in quanto nordica, pretenziosa, non ha mai funzionato. Sacchi di immondizia giacciono ai lati delle strade, lacerati dai cani e dal passaggio delle auto. Molti la vanno a buttare altrove, nei cassonetti di Setteville (Guidonia); e in questo gravare i comuni limitrofi della mondezza nostra, noi romaestini ci liberiamo di un peso fisico ma ci carichiamo di una umiliazione morale: avendo pagato la Tari.
La politica è rumore di fondo. Negligenza e inettitudine del Pd nel gestire la questione Mafia Capitale hanno indotto il circolo di Castelverde ad auto-commissariarsi. Un dibattito con relativo conflitto psichico seguì alla scoperta che tra gli iscritti c’era Salvatore Buzzi, che qui pure abitava e girava con un’Audi di grossa cilindrata (sollievo dei residenti al pensiero di aver evitato un Cid con un amico di Carminati).

Ancora ad est si apre la conca di Corcolle, dove tutto è scoppiato nel 2014 con assalti a conducenti dell’Atac e ronde anti-neri. A Rocca Cencia, la paventata costruzione di un inceneritore ha prodotto, davanti a un tempio buddista con elefante dorato, la scritta “Qui è la Terra dei Fuochi”.

Benché per la burocrazia e la toponomastica questa sia Roma, “andare a Roma” è un topos che si apprende da bambini e partecipa da adulti della routine da pendolari. Qui si è transfrontalieri chiamati di giorno ai lavori forzati in un Paese straniero, e poi ricacciati nell’assenza di servizi. È terra di nessuno, dove coesistono l’antico retaggio contadino e il moderno e impersonale fatalismo metropolitano. Rinuncia e risentimento hanno creato un adattamento microclimatico e un ecosistema tollerato, insalubre e vacillante e perciò stabile, tenuto su da conflittualità che si elidono a vicenda e si risolvono nell’astenia. Nessuno si chiede se scoppierà questa Roma sconfortata, ignorata e stanca, o se sopravviverà ai mutamenti imposti dal divenire.