Si tiene lontano dalle beghe nel Pd nazionale. Parla solo di temi locali, lavori in corso, risultati. E batte la città strada per strada. Così il primo cittadino cerca il secondo mandato. Ma il M5S spera nel ballottaggio

Piero Fassino non ha perso le abitudini di chi fa politica da quando gli smartphone non esistevano. Ogni giorno si annota gli appuntamenti della campagna elettorale in una smilza agenda nera, che tiene nella tasca interna della giacca. Si parte la mattina presto, si stacca dopo il tramonto. La media è una decina di incontri ma ci sono giornate che farebbero venire il fiatone a chiunque, con più di quindici tappe in ogni angolo della città. Ogni ora presenta un attimo da cogliere: una visita al nuovo Museo Ettore Fico, un’istituzione privata nata dove un tempo c’era la fabbrica di fili di rame dove lavorava il chimico Primo Levi, in una periferia difficile come la Barriera di Milano; la presentazione di una corsa benefica; la firma dell’accordo per finanziare la ristrutturazione della scuola Enrico Fermi, al Lingotto; un aperitivo con gli imprenditori cattolici; l’apertura del nuovo Energy Center, ultima emanazione del Politecnico, che da luglio ospiterà ingegneri, fisici e matematici dei centri ricerca di quindici industrie private, che lavoreranno sull’energia del futuro.

A 66 anni, Piero Fassino non immaginava forse di doversi spingere tanto “on the road” per farsi confermare alla guida di Torino, la città dove ha mosso i primi passi di una carriera politica che l’ha portato in alto, più volte ministro, segretario dei Ds, inviato dell’Unione europea nella Birmania delle giunte militari. Da quando è stato eletto, nel 2011, le classifiche del “Sole 24 Ore” lo hanno sempre visto ai primi posti tra i sindaci più apprezzati d’Italia, con gradimenti superiori a quelli di un’icona della sinistra come il milanese Giuliano Pisapia.

Eppure, a due mesi dalle elezioni, le incognite sono numerose. Proprio a sinistra c’è l’incubo di uno smottamento per l’ingresso in campo di Giorgio Airaudo, ex segretario della Fiom cittadina e deputato di Sel, che in modo esplicito ha detto di correre per un obiettivo politico più nazionale che cittadino, costruire «un campo alternativo» al Pd di Matteo Renzi. Una sfida che peserà, se costringerà Fassino al ballottaggio. Perché ai supplementari la storia insegna che si riparte da zero, e chissà che a quel punto non abbia una chance la candidata del Movimento 5 Stelle, Chiara Appendino, che spera di far convergere tutti i delusi di una città che, negli ultimi 23 anni, si è mossa in continuità lungo la linea Valentino Castellani, Sergio Chiamparino, Piero Fassino.

Nel pomeriggio di mercoledì 6 aprile il primo e l’ultimo di questo terzetto erano seduti su un divano del modernissimo Collegio Einaudi, pareti colorate, 111 stanze singole per ospitare studenti universitari in via delle Rosine e ulteriori 644 nelle altre quattro sedi, cucine comuni, biblioteca, sala fitness. «Chi riesce a tenere il ritmo che chiediamo per restare qui, esce dall’università con voti molto alti», dice con orgoglio il giovane direttore, Andrea Fabbri. I ragazzi presenti all’incontro, una trentina, fanno domande, Fassino risponde, spiega. +

Dice che nel terribile decennio della crisi dell’industria, tra gli anni Ottanta e i Novanta, Torino ha perso 300 mila abitanti e si è ritrovata con 10 milioni di metri quadri abbandonati dalle fabbriche. «Queste due dinamiche avrebbero potuto uccidere la città. Eppure, piano piano, abbiamo metabolizzato il lutto e avviato un lavoro di ricostruzione che non si poteva completare nel giro di pochi anni». Fa l’esempio della metropolitana: «Castellani l’ha deliberata, Chiamparino l’ha costruita, ora la stiamo terminando. E così sarà per la seconda linea: abbiamo fatto il bando per la progettazione, la finirà il mio successore».

Quella che descrive il sindaco, è una Torino a cui è stata sostituita la colonna vertebrale: una volta c’era «la fabbrica fordista, attorno a cui girava tutto», ora invece c’è una città che «investe 100 milioni l’anno in cultura, perché la cultura non è un passatempo ma un elemento costitutivo del modello di sviluppo»; e c’è una città che ha fatto dell’università e dei suoi 100 mila studenti il centro gravitazionale del futuro, dove anche l’industria «ha cambiato pelle». Fassino cita il dato dell’auto: «Trent’anni fa la Fiat acquistava l’80 per cento di quanto l’industria automobilistica torinese produceva mentre il restante 20 per cento era destinato a clienti terzi; oggi questo rapporto si è rovesciato. Ma per compiere la trasformazione, ha dovuto cambiare radicalmente, mettersi in concorrenza con il resto del mondo.

Ecco perché, se la ripresa si rinforza, sono fiducioso: Torino è pronta». Lui cita la «continuità» necessaria per completare il rilancio, uno dei temi della sua campagna. Le domande dei ragazzi, però, lo incalzano. E due di queste sollevano temi caldi. Giovanni, piemontese non torinese, chiede qual è il modo per far restare qui e inserire nei posti di comando i tanti talenti che arrivano per studiare, in una città dove l’ascensore sociale non ha mai funzionato granché. Mentre Sofia, che si dice «orgogliosa» di come Torino abbia rivoluzionato il centro cittadino, racconta l’angoscia della sua zona, Borgo Vittoria, periferia nord, di cui cita il «degrado assoluto».

Le periferie, a detta di molti, sono il luogo cruciale dove si giocherà il voto. Per capirne i motivi, si può partire dai dati elaborati per “l’Espresso” da Giovanni Foresti, della direzione Studi e ricerche di Intesa Sanpaolo. I numeri dicono che l’export della provincia di Torino ha raggiunto nel 2015 i 22,5 miliardi di euro, un livello superiore ai 18,7 miliardi del 2008. Proprio l’anno passato si è vista un’ulteriore accelerazione: l’incremento dell’export è stato pari a 2,1 miliardi, il maggiore registrato fra tutte le province italiane. Molto dipende dall’auto, ma numeri positivi arrivano da tanti settori, a cominciare dall’industria aerospaziale, dalla meccanica e dalle aziende che operano nell’Information Technology, che hanno raggiunto un export di 804 milioni, secondo in Italia solo a Milano.

I turisti sono ormai 4,5 milioni l’anno, un record, più dei 3,3 milioni del 2006 olimpico
, con un incremento che proprio nel 2015 è stato particolarmente sostenuto, grazie anche all’onda lunga delle grandi mostre, con 310 mila visitatori per Monet, 160 mila per Renoir, 100 mila per De Lempicka, i 150 mila previsti per Matisse a Palazzo Chiablese (terminerà in luglio). Dal 2004 a oggi, per dire, l’incremento nelle presenze di turisti è stato del 71 per cento, ben più forte del +11 italiano. Tutto questo, però, finora ha avuto effetti modesti sulle opportunità di lavoro. Il tasso di disoccupazione nel 2015 è sceso dal 12,9 all’11,9 per cento, ma resta in linea con quello italiano, non eccelso. E in particolare è pesante il dato per i giovani con meno di 24 anni: in questo caso il tasso di disoccupazione è sceso dal 49,9 al 44,9 per cento, ma resta più alto della media nazionale (40,3).

Il sociologo Bruno Manghi, che presiede la Fondazione di Comunità di Mirafiori, una onlus che lavora per rivitalizzare socialmente lo spopolato quartiere operaio, spiega che la Torino del turismo e delle università d’avanguardia si è sviluppata «in un cratere dove era venuto meno quel tessuto sociale formato dalle 40-50 mila famiglie a cui le vecchie industrie davano da vivere». Il tema non è solo di Torino, avverte Manghi, ma è certo che nella città piemontese la scomparsa delle fabbriche ha lasciato un vuoto difficile da colmare e ha spinto molti giovani a emigrare, facendo impoverire e invecchiare la capitale dell’auto. Per il sociologo, il fattore chiave per il risultato delle elezioni sarà dunque la differenza dei «sentimenti collettivi tra coloro che mantengono una sufficiente fiducia nel ceto amministrativo e coloro che invece sono insofferenti».

La Torino che luccica non è solo quella del Museo Egizio o del Salone del Libro, ma anche quella, appunto, dell’università. Il Politecnico è una città con 33 mila studenti. La facoltà d’Ingegneria accoglie 4.600 matricole l’anno (il 34 per cento non piemontesi, a cui va aggiunto un 16 per cento di stranieri, molti cinesi), la metà dei novemila che fanno richiesta.

Il rettore Marco Gilli, nell’ufficio dove spicca il ritratto di un predecessore ottocentesco, il matematico Giulio Axerio, racconta che fino a quindici anni fa le matricole erano duemila e che l’attuale numero chiuso non dipende dall’esigenza di non produrre troppi ingegneri: «Anzi, il nostro obiettivo è formarne il numero più alto possibile. Anche perché», spiega, «più del 90 per cento dei laureati trova lavoro entro un anno». E gli altri? «Spesso scelgono di non lavorare per seguire dottorati e master». Il problema è piuttosto quello delle aule e dei laboratori, che hanno già invaso le fabbriche dismesse che sorgevano al di là di corso Castelfidardo ma che non bastano mai. E poi ci sono le aziende che all’interno del Poli hanno installato i loro centri ricerche, a cominciare dalla General Motors, per arrivare a quelle che occuperanno il nuovo Energy Center di via Bixio, un edificio costruito da zero, tutto tagli obliqui e vetrate scure. Per Gilli ciò ha importanti ricadute sul territorio, perché formazione e ricerca sono «un fattore fondamentale dello sviluppo» e Torino sta diventando «la città delle tecnologie».

Ma questi risultati, i cui effetti più concreti si vedranno in tempi lunghi, come già sottolineato da Manghi ancora non risollevano tutta la città. Un po’ perché la crisi è stata pesantissima, e Fassino nel 2011 si è ritrovato un bel malloppo di debiti, che l’hanno costretto a uscire temporaneamente dal patto di stabilità e che è riuscito ad arginare senza tagliare la spesa sociale e senza bloccare gli investimenti avviati.

Un po’ perché, spiega Giuseppe Russo, direttore del centro studi Luigi Einaudi, accanto alle imprese più dinamiche che hanno agganciato il treno dell’export, ci sono quelle che lavorano per il mercato interno, e che «sono rimaste fuori da questa fase della ripresa». Di qui, dice Russo, le cicatrici che segnano le periferie: «Il peggioramento delle condizioni delle periferie, in rapporto al centro città, è stato molto marcato. È il tema del mandato del futuro sindaco».

Il problema, dice un imprenditore come Davide Canavesio - che ha fondato l’associazione NexTo per dare voce a una leva di trenta-quarantenni «che oggi vedo con tristezza partire tutte le mattine con il treno per Milano» - è sfruttare le opportunità che la città offre per attirare investimenti. Canavesio fa l’elenco: spazi a poco prezzo, competenze tecnologiche, università, collegamenti internazionali, qualità della vita. E spiega: «Finora abbiamo accolto gli imprenditori che, di fatto, sono venuti a cercarci da soli. Invece dobbiamo andare con umiltà a fare anticamera dagli investitori potenzialmente interessati e spiegare perché possono venire qui da noi».

Palazzo Civico, sede del municipio, di fronte al monumento al Conte Verde, il guerriero-dongiovanni che nel Trecento diede lustro ai Savoia, che a quei tempi parevano più fascinosi, almeno sui libri di storia, di quelli visti poi. Chiara Appendino, 31 anni, sembra aver impostato la sua campagna proprio sull’idea di catturare il voto dei delusi e degli scontenti. Molto attenta nelle parole, non rinnega la direzione della rivoluzione iniziata da Castellani ma sostiene che molti progetti di Fassino resteranno sulla carta, perché i quattrini sono finiti. Attaccato a uno scaffale c’è un elenco degli uomini chiave dell’amministrazione. Su qualcuno c’è scritto “colpito”, a indicare il puntiglioso spulciamento di carte che ha fatto emergere un po’ delle incrostazioni che un potere ventennale si porta dietro.

Parla di «divario sociale», insiste sul distacco «fra l’amministrazione e i cittadini» e su chi «non si ritrova nel racconto di una città in pieno boom». Sostiene di aver scritto il programma con il contributo di decine di volontari, che si sono confrontati con la città. Spiega che, per spezzare il circolo dei soliti noti che dominano la politica cittadina, ha chiesto a chi voleva fare l’assessore di mandare un curriculum. Dice di averne ricevuti trecento: «La cosa sorprendente è stata che si sono fatte avanti persone di altissimo livello, che in una giunta scelta con la logica del manuale Cencelli non ci avrebbero mai nemmeno pensato», dice. I primi tre sono stati annunciati: sono un professore del Politecnico, un ex dirigente della Regione, un ex atleta. Altri verranno. La sfida è lanciata.