Dopo la bozza di decreto che dispone la riduzione dei dirigenti penitenziari e l’accorpamento di alcuni istituti, parla il segretario del secondo sindacato di categoria. Che denuncia le condizioni frustranti di lavoro e annuncia forme eclatanti di protesta. "Dal 2006 siamo senza contratto"
Da anni si sentono lasciati allo sbaraglio e costretti a lavorare in condizioni d’incertezza, ma sono una categoria numericamente esigua e faticano a far sentire la loro voce. Adesso, però, la misura è colma. I direttori delle carceri italiane si preparano ad alzare i toni della protesta, minacciando di spingersi fino alle dimissioni di massa. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la bozza di decreto ministeriale che il capo di Gabinetto del ministero della Giustizia, Giovanni Melillo, ha trasmesso alle organizzazioni sindacali di categoria lo scorso 24 dicembre. Lì sono scritte le norme in base alle quali dovrebbe essere riorganizzato l’organico dei dirigenti penitenziari: la spending review, infatti, tocca anche loro e un decreto del presidente del Consiglio del giugno 2015 aveva già imposto una riduzione del numero dei posti di funzione dirigenziali. Da 500, quindi, si dovrà scendere a 300. E per ottenere questo risultato a via Arenula s’è deciso pure di accorpare una quarantina di istituti penitenziari in tutta Italia, trasformando le strutture accorpate in sezioni distaccate delle sedi principali.
Non è la previsione dei tagli, comunque, ad aver fatto alzare le barricate ai direttori delle carceri. A sconcertarli, semmai, è l’illogicità dei criteri secondo cui questi tagli dovrebbero essere effettuati e l’assenza di dialogo tra ministero e diretti interessati alla riforma. «Abbiamo ricevuto la bozza di testo alla vigilia di Natale e la scadenza per la presentazione delle nostre osservazioni era il 9 gennaio. Nonostante i tempi stretti, abbiamo fatto pervenire al ministro un documento con i nostri rilievi, ma non abbiamo ancora avuto risposta», dice Mario Antonio Galati, segretario nazionale della “Dirigenza penitenziaria sindacalizzata”, che aggiunge: «I parametri che si vogliono seguire per procedere all’accorpamento degli istituti sono assurdi, non si tiene conto nemmeno delle distanze geografiche o dei diversi circuiti penitenziari».
Per capire basta guardare a quanto potrebbe succedere, per esempio, in Lombardia. Il carcere di Sondrio verrebbe accorpato a quello di Bergamo, anche se in mezzo ci sono le Prealpi; quello di Como ingloberebbe il penitenziario di Varese, anziché quello ben più vicino di Busto Arsizio; mentre il carcere milanese di San Vittore si unirebbe a quello di Lodi, nonostante si tratti di due realtà imparagonabili per problematiche e dimensioni. Altrettanto azzardati sarebbero gli accorpamenti tra istituti maschili e femminili oppure tra istituti ad alta sicurezza e altri a media o bassa sicurezza, visti i pericoli e i malfunzionamenti che ne deriverebbero. La bozza ministeriale, in pratica, disegna un nuovo assetto tenendo conto soltanto della presenza numerica di detenuti nell’istituto a una certa data presa a campione.
Inoltre, i direttori che perderanno la carica a seguito degli accorpamenti sembrano destinati ad assumere la veste di vicedirettori o di “direttori aggiunti” rispetto al collega, definito coordinatore, dell’istituto accorpante. Una soluzione che qualcuno definisce un demansionamento camuffato, mentre Galati spiega: «Se diminuiscono i posti, non servirà immettere in ruolo nuovi direttori e, perciò, non ci sarà bisogno di indire concorsi. Questo sarà il risparmio reale. Tuttavia, se si considera che l’ultima immissione in ruolo risale al 1997, si comprende come la categoria rischi d’invecchiare e d’impoverirsi».
Il segretario, inoltre, è preoccupato per i problemi che il direttore-coordinatore si troverà ad affrontare: «Ogni decisione in materia di spesa, di sicurezza, di igiene e di trattamento, dai provvedimenti disciplinari al rilascio dei colloqui, fino all’autorizzazione delle uscite e dei ricoveri urgenti, spetta al direttore. L’eccessivo accumulo di responsabilità e l’impossibilità di essere fisicamente presente nella sezione distaccata del carcere, quindi, lo costringeranno a delegare molte competenze. E una delega obbligata è un modo per spogliarlo delle sue funzioni. Senza dimenticare che spesso il direttore non può scegliere la persona a cui delegare, nonostante continui a rispondere anche penalmente degli atti delegati».
Tutto ciò, quindi, sembra contrastare con quel modello di esecuzione penale aperto, attento alla persona detenuta, innovativo ed europeo, proposto dai cosiddetti “stati generali”, cioè quei tavoli di studio istituiti dal ministero per approntare una riforma dell’ordinamento penitenziario. Il decreto ministeriale appare anacronistico, perché paventa una gestione securitaria delle carceri e rischia sostanzialmente di azzerare i risultati di un lavoro organizzativo che lo staff penitenziario, con in testa il direttore, ha tentato di raggiungere in ogni singolo istituto.
«D’altra parte, questo decreto è solo l’ultima spia di quanto a livello politico la figura del direttore sia considerata inutile. Siamo usati come un parafulmine su cui scaricare le responsabilità nei momenti di tempesta, senza alcun riconoscimento della nostra professionalità», aggiunge amareggiato Galati. I direttori, infatti, non hanno un contratto di categoria da un decennio: il decreto legislativo 63 del 2006 ha disciplinato le funzioni dei dirigenti dell’amministrazione penitenziaria, ma è rimasto in gran parte inattuato. Così, a loro si applica nel frattempo la disciplina prevista per i dirigenti della Polizia di Stato.
«Non esiste una regolamentazione delle nostre competenze, non ci sono criteri per fissare i livelli salariali né sono previste indennità di funzione e di obiettivo. Capita così che un vicedirettore guadagni più del suo superiore o che il direttore di un istituto con 30 detenuti percepisca lo stesso stipendio del collega posto a capo di una struttura che ne ospita mille. In molte regioni, poi, ai direttori non viene assegnato un budget di spesa, con la conseguenza che è impossibile programmare gli investimenti», prosegue Galati. Che sottolinea come il vuoto contrattuale incida pure sulle nomine: «Si procede per chiamata diretta. Spesso è il dirigente generale del personale a nominare i direttori, senza che siano pubblicate richieste di disponibilità o che vengano considerate eventuali graduatorie preesistenti».
Parità di trattamento, trasparenza, meritocrazia e autonomia: questi, insomma, sono i principi in base ai quali i direttori delle carcere vorrebbero essere selezionati, nominati, valutati nel loro lavoro e, quindi, sanzionati o gratificati in relazione ai risultati conseguiti. Perciò pretendono che finalmente siano fissate regole certe per lo svolgimento delle loro funzioni. E chiedono che, prima di effettuare tagli secondo criteri che definiscono “sconclusionati”, si proceda a una redistribuzione e a una razionalizzazione delle risorse.
«È necessario studiare un nuovo ed efficace modello organizzativo per l’amministrazione penitenziaria. Il ministero non ha fatto il minimo sforzo per cercare alternative, mentre dovrebbe ascoltare le proposte che arrivano dai sindacati, dai tavoli di studio e dagli operatori del settore», conclude Galati, auspicando che la protesta coinvolga la categoria intera: «Non è una difesa di corporazione. Stavolta intendiamo prendere iniziative forti e vogliamo coinvolgere l’opinione pubblica. Stiamo discutendo sull’opportunità di indire uno sciopero, di ricorrere alla Corte europea dei Diritti dell’uomo e di arrivare, se del caso, alla rinuncia all’incarico da parte di tutti i direttori». E senza di loro, le carceri potranno continuare a funzionare?