Negli ultimi cinque anni decine di inchieste, da Sud a Nord, hanno svelato l'impero del gioco targato 'ndrine. Un impero costruito apparentemente nella legalità. Con imprenditori dai trascorsi criminali che sono diventati "re del gioco e delle slot". E i clan che riciclano milioni di euro in Italia e all'estero

C'è l'ex rapinatore della periferia di Reggio Calabria diventato abile manager del gioco a Malta; c'è il pregiudicato condannato a 23 in appello in un processo per droga e armi che nel giro, e in attesa di sentenza definitiva, veste i panni di imprenditore di successo nel settore; c'è il cugino del super boss dello Stretto che a Milano ha arruolato uomini di fiducia per gestire al meglio il business milionario delle video slot.

Nelle tante Las Vegas nate sul web a tutti è concessa una seconda possibilità. Il passato criminale coperto da un elegante abito firmato viene cancellato. Così personaggi con trascorsi mafiosi riescono a dialogare con colossi del settore, politica e professionisti del gioco.

Sono solo alcuni esempi che raccontano di quella giungla senza regole e con pochi controlli chiamata gioco d’azzardo on line. Semplicemente gaming, per gli habituée. Una dimensione fatta di tavoli che fisicamente non esistono, ma attorno a cui migliaia di giocatori si avvicendano e rovinano l'economia familiare.

I soldi che quei tappeti verdi fanno girare sono reali e pesano per miliardi di euro sull’economia delle ‘ndrine. Stime approssimate per difetto e – ormai – risalenti nel tempo dicono che le ‘ndrine abbiano guadagnato oltre 5 miliardi di euro grazie a giochi e scommesse on line illeciti.

Lo dimostrano le inchieste giudiziaria più recenti. Solo negli ultimi cinque anni sono state più di 20 le indagini che hanno svelato il sistema messo in piedi dalle mafie nel gioco legale: dalle slot alle piattaforme per il gioco online. Indagini che fotografano una supremazia dei clan calabresi e in diversi casi alleanze strategiche con il clan dei Casalesi e cosa nostra.

Poco meno arriva dal giro legale, cioè visibile all’Aams, che in Italia si occupa di vigilare sul grande mondo dell’azzardo. Quello che però non riuscirà mai a vedere sono i giri di usura, le estorsioni, il riciclaggio di piccole e grandi partite di denaro, che i clan hanno imparato a nascondere dietro le ricevitorie e in mezzo alle schedine di chi sogna una scommessa vincente che gli stravolga la vita. Slot e poker online rappresentano per le cosche calabresi quello che per i Casalesi è stato il business dei rifiuti.

Una voce di bilancio enorme. Dal 2006, quando il gioco d’azzardo è uscito dai recinti dei casinò grazie alle liberalizzazioni, l’Italia si è scoperta abitata da un popolo di scommettitori, pokeristi, appassionati di roulette, black jack, Mahjong, slot. E le ‘ndrine ne hanno approfittato. Pionieri nella scoperta di nuovi mercati, i clan hanno capito subito che grazie a quei sistemi avrebbero potuto risolvere uno degli storici problemi della ‘ndrangheta: ripulire e mettere in circolazione l’enorme liquidità derivante dal narcotraffico. I rischi sono bassissimi.

Archiviato come retaggio del passato il cosiddetto “racket delle schedine vincenti” – in passato sequestrate o comprate dai legittimi proprietari per giustificare una provvista di denaro altrimenti inspiegabile – i clan prima hanno iniziato a monopolizzare il settore dei videopoker, quindi hanno esplorato un nuovo, più fiorente e inafferrabile settore: il gaming on line e le video slot, con tanto di software inventati allo scopo di nascondere le proprie tracce. Su entrambi hanno costruito imperi. O meglio li hanno legalizzati. Sia in proprio che conto terzi.

Questo era il ruolo – ad esempio – di Gioacchino Campolo, il “re dei videopoker” condannato in via definitiva a 16 di reclusione. Grazie alla protezione dei maggiori clan reggini, era riuscito ad acquisire il monopolio della gestione e del noleggio degli apparecchi da gioco a Reggio Calabria. Non solo gestiva una serie di sale scommesse, ma imponeva alle altre il noleggio delle sue macchinette. Un affare a sei e più zeri, se è vero che quando gli investigatori si sono presentati per stringergli le manette ai polsi, nella casa in cui abitava hanno trovato quadri di Dalì, Guttuso, Ligabue, De Chirico, mentre in garage riposavano quindici fra auto e moto di gran lusso. Le altre case del re dei videopoker – ugualmente finite sotto sequestro – erano invece disseminate fra Taormina, Roma, Parigi e Milano.

Anche sotto la Madonnina la ‘ndrangheta ha saputo imporre il proprio monopolio. A gestirlo era Paolo Martino - cugino prediletto del demiurgo della nuova ‘ndrangheta reggina, il boss Paolino De Stefano – insieme a Giulio Lampada, espressione diretta dei Condello – altro clan dell’elite della città di Reggio – che fra i suoi amici più fedeli poteva contare l’ex consigliere regionale calabrese Franco Morelli, l’ex presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Reggio Enzo Giglio, l’ex gip di Palmi, Giancarlo Giusti, più una pletora di politici, imprenditori e uomini d’affari. Contatti grazie ai quali il boss calabrese trapiantato a Milano, finirà anche ad una cena elettorale dell’ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno, e riuscirà a far battezzare il figlio in Vaticano.

Una creatura di questi clan reggini è proprio Mario Gennaro. L'ex rapinatore cresciuto nella periferia disastrata di Reggio e che i grandi capi, sostiene la procura antimafia, hanno scelto come referente “internazionale” nel settore delle scommesse online. Da delinquente di strada, da manovale del clan, è diventato così un importante figura all'interno del colosso maltese Betuniq. E proprio a Malta, come raccontato da “l'Espresso” nello scorso numero, si nascondo gli interessi della nuova frontiere degli investimenti delle cosche calabresi.

In Emilia Romagna il re della zona è Nicola “Rocco” Femia. I tentacoli delle sue società hanno raggiunto però molte zone del Paese e dell'Europa, Inghilterra e Romania per prime. E proprio indagando sull'imprenditore delle slot Lampada che gli inquirenti risalgono all'impero di Femia. I contatti sono frequenti, e, stando alle informative della squadra Mobile, anche gli scambi commerciali. Lampada, infatti, si riforniva di slot proprio dalla ditte di “Rocco”, ora sotto processo a Bologna per associazione mafiosa insieme ai figli e ai collaboratori.

Il nome di Femia spunta poi in un'altra inchiesta che ha riguardato la Capitale. Non da indagato, ma come uomo al quale chiedere informazioni in quanto tra i massimi esperti del settore. Protagonista dell'indagine è il clan Molè: le “macchinette” venivano piazzate a Roma e sul litorale, Ostia inclusa. A gestirlo, era un boss ragazzino. All’epoca dell’inchiesta, ha poco più di 15 anni, ma è figlio e nipote di capo, come tale è stato educato e quando gli uomini “di famiglia” finiscono tutti dietro le sbarre, come tale si comporta. Anche quando deve imporre con la forza i propri apparecchi di gioco a Roma, dove è stato mandato per scappare dalla faida che si consuma a Gioia Tauro.

A Reggio invece, dall’inizio degli anni Novanta – quando si è messo fine a quella seconda guerra di ndrangheta costata in meno di 6 anni più di 700 morti ammazzati - non si spara più. E gli affari si concordano e spartiscono secondo le regole stabilite alla fine di quella guerra e su cui vigila un direttorio di clan, cui tutte le altre ‘ndrine si sono o sono state costrette ad adeguarsi.

A mettere il sigillo iniziale sul grande business del gaming on line sono “gli arcoti” – il clan De Stefano-Tegano – ma tutte le cosche della città sono state invitate a partecipare. D’altra parte, il sistema che l’operazione Gambling ha iniziato a svelare permetteva margini a tutti. Testato a Reggio Calabria, quindi replicato a Roma e Padova, ha fatto il salto di qualità quando ha spostato la propria sede operativa a Malta, pur mantenendo i propri tentacoli – forse non tutti ancora individuati – in Italia.

E dall’esclusiva Portomaso, dove batteva il cuore del gaming maltese dei clan, il sistema aveva iniziato ad estendersi anche alle Canarie, alla Serbia, alla Romania.

Tutto questo grazie a un manipolo di fedelissimi dei clan, spesso con precedenti pesanti, ma che nonostante ciò trovano facili consensi tra professionisti del settore e insospettabili nomi della politica e delle autorià che dovrebbero vigilare. Perché, in fondo, nel gioco conta più l'apparenza che la sostanza.