Maria Teresa Grassi, docente di archeologia, ha lavorato nell'antica città romana in Siria fino a quando la guerra ha costretto ad interrompere gli scavi. Oggi il sito è sotto il controllo dell'Is, che lo sta distruggendo

Maria Teresa Grassi è, forse, l’italiana che meglio conosce Palmira, antica città romana sopravvissuta al tempo ma non alla furia dell’Is che, proprio in queste ore, la sta distruggendo.

“Non credevo che lo avrei mai detto, ma è un bene che gli scavi siano stati sospesi. La terra nasconde. La terra protegge”. L’archeologa milanese, docente di Archeologia delle Province Romane all’Università Statale, è stata la prima a volere, nel 2007, quando ancora nessuno ci aveva pensato, una missione italiana di scavi e studi in quella che era la città romana meglio conservata d’oriente. Sempre lei la aveva guidata, al fianco di Omar Al As’ad, il figlio di Kaled, l’anziano direttore del sito ucciso pochi giorni fa, fino al 2010, quando poi la guerra fece finire tutto. “Eravamo poco meno di trenta, tra archeologi italiani e siriani. Ma poi c’erano anche maestranze, operai, traduttori: una piccola città nella città; entrambe oggi sono in pericolo”

Su cosa si concentrava il vostro scavo?
Il quartiere di Palmira che avevamo in concessione per lo scavo era enorme: quasi un quarto dell’intera città. Abbiamo cominciato con gli scavi di una casa privata: non ci occupavamo di monumenti e palazzi, ma delle case comuni delle persone comuni: commercianti, impiegati, famiglie…In questo modo abbiamo potuto ricostruire un pezzo della storia romana della Siria e, soprattutto, abbiamo trovato cose inaspettate.



Quali?
Il nostro progetto era nato per indagare le case romane, ma poi ci siamo accorti che, per esempio, lo stesso edificio su quale stavamo scavando e che pensavamo in un primo momento fosse di epoca romana, in realtà molto più tardo, del VII/ VIII secolo, il che ci ha fatto comprendere come, anche dopo la distruzione operata dall’imperatore Aureliano, la città aveva continuato a vivere e prosperare. Se fossimo andati avanti, probabilmente, sotto, avremmo trovato una casa romana di cui siamo solo riusciti a intravedere alcuni frammenti e che prometteva di essere bellissima. Per fortuna ci siamo fermati e abbiamo lasciato tutto sotto terra, al sicuro.

E ora cosa succederà al sito?
Niente di buono temo. Non sappiamo più niente. Io non chiamo mai i miei colleghi siriani perché temo che la comparsa del+39 sul loro cellulare possa farli accusare di collaborazionismo. Mi chiedo, certo, se qualcuno, oltre agli archeologi, si stia preoccupando di fare qualcosa prima che Palmira venga rasa al suolo e persa per sempre. Ma sono più preoccupata per le persone. So che le loro condizioni laggiù sono terribili e che molti di loro sono, nella migliore delle ipotesi, in un campo profughi.

Oltre a Palmira, ci sono altri siti in pericolo?
Tutti. Palmira fa notizia, ma ce ne sono molti altri, meno famosi e, proprio per questo, più vulnerabili. Immagini che un attacco del genere si verifichi in Italia: gli occhi del mondo sarebbero puntati su Roma, su San Pietro, su Firenze, ma al di là dei monumenti più celebri esisterebbe una rete infinita di piccoli tesori meno conosciuti. Lo stesso sta accadendo in Siria. Mentre tutto il mondo guarda Palmira, a pochi chilometri, nel silenzio e nell’indifferenza avvengono altre distruzioni, altri saccheggi. Se far saltare con l’esplosivo i templi serve a far notizia, gli oggetti piccoli, quelli che si rubano e nascondono servono a far cassa.

Ma chi può comprare queste cose?
Il mercato è essenzialmente di privati o, almeno, così spero. Sarebbe grave se ci fossero di mezzo anche musei e stati. Inoltre questi oggetti, per lo più, non sono né schedati né inventariati, e per tanto sono commercialissimi e, una volta fatti sparire e venduti, diventano praticamente introvabili.