I video de l’Espresso sullo spionaggio nel Califfato sono stati analizzati in tutto il mondo. Perché mostrano anche come evitare danni collaterali

È un volto diverso del Califfato, che ha fatto il giro del mondo. Le immagini riprese dai droni italiani che spiano il Daesh pubblicate in esclusiva da “l’Espresso” nel numero scorso sono state riprese da giornali e siti di tutti i continenti, dall’Inghilterra al Kenya, dagli Usa al Giappone. E il “New York Times” gli ha dedicato un’analisi: «Quei video mostrano grandi capacità. Tra le altre cose, dimostrano che ci sono poche possibilità di negare i danni collaterali. Si può vedere tutto con dettagli estremi e altissima risoluzione», ha spiegato al quotidiano statunitense Thomas Keenan, direttore del programma diritti umani del Bard College e del centro studi internazionale sui droni.

La questione dei danni collaterali non è secondaria nelle riflessioni sulla partecipazione italiana agli attacchi aerei contro lo Stato islamico. «Non rincorro le bombe degli altri», ha dichiarato il premier Matteo Renzi. «Chi ha fatto delle fughe in avanti è stato più capace di rompere che ricostruire», ha aggiunto il ministro della Difesa Roberta Pinotti. Una valutazione politica scaturita dai risultati nefasti delle operazioni occidentali contro Saddam Hussein e Gheddafi. E che si rispecchia negli aspetti operativi della missione anti Daesh.

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Dal 1996 infatti l’Aeronautica ha condotto numerose campagne di raid, sulla ex Jugoslavia e in Libia, ma sempre a condizione di fare parte dei comandi che selezionavano i bersagli. Con una linea rigorosa nella scelta degli obiettivi, che in diverse occasioni ha visto i nostri generali in contrasto con gli alleati, soprattutto durante la campagna libica. E in Afghanistan i caccia tricolore si sono limitati a soccorrere le truppe sotto tiro e distruggere installazioni radio, esclusivamente agli ordini del contingente italiano. Non c’è mai stata un’accusa o un sospetto di vittime civili per le nostre incursioni.

Il problema si pone doppiamente nel caso dell’offensiva contro l’armata jihadista, che sparpaglia le truppe dentro le abitazioni e crea arsenali nelle case. Per questo è considerato determinante il contributo dei ricognitori italiani schierati da oltre un anno a Kuwait City. E per questo i risultati dei bombardamenti occidentali finora sono stati scarsi. Barack Obama ha minacciato i leader dell’Is: «Non potete nascondervi, sarete i prossimi a essere colpiti». In realtà, in quindici mesi i raid hanno ucciso solo tredici figure di rilievo dell’organizzazione fondamentalista. Il bilancio aggiornato alla scorsa settimana conta 8783 attacchi, di cui 5765 in Iraq e 3018 in Siria. Degli oltre 16 mila bersagli distrutti, ben 4500 sono edifici e altri 10 mila vengono definiti “postazioni di combattimento”.

Dati che evidenziano come non servano altri bombardieri, ma informazioni chiare su cosa colpire senza esporre ad ulteriori sacrifici popolazioni che da anni vivono in guerra. Ogni vittima civile provocata dalle incursioni viene amplificata dalla propaganda jihadista, per aumentare il consenso al suo messaggio di morte e consolidare il sostegno tra le masse sunnite che l’Occidente non è ancora riuscito a erodere. Per ottenere l’appoggio della popolazione, come ha sottolineato il ministro Pinotti, «l’azione militare da sola non basta».