I due italiani erano stati accusati dell'omicidio del loro compagno di viaggio, Francesco Montis. Sono rimasti 1811 giorni in cella a Varanasi, in condizioni molto dure, prima della sentenza definitiva che li ha scagionati. E il loro caso non ha mai attratto l'opinione pubblica come quello del due marò 

Hanno passato cinque anni in un carcere indiano, condannati all’ergastolo per un omicidio che non avevano commesso. La Corte Suprema di Delhi ha assolto Tomaso Bruno, 32 anni, ed Elisabetta Boncompagni, 42 anni, i due italiani arrestati in India nel 2010 con l’accusa di aver ucciso il loro compagno di viaggio, Francesco Montis. Da 1811 giorni aspettavano la sentenza definitiva nel District Jail di Varanasi, la città sacra sulle sponde del Gange. «Tomaso libero, Tomaso libero, Tomaso libero», ha urlato questa mattina su Facebook la mamma di Tomaso, Marina Maurizio, che negli ultimi anni è volata decine di volte in India per stare vicina al figlio.


La sventura giudiziaria di Tomaso ed Elisabetta era cominciata all’inizio del 2010, quando entrambi vivevano a Londra e partirono per un viaggio in India insieme a Francesco, il compagno di Elisabetta. La notte del 4 febbraio a Varanasi, la città un tempo nota come Benares, nella regione dell’Uttar Pradesh, Francesco Montis morì dopo aver fatto uso di droghe, hashish ed eroina.

Tomaso ed Elisabetta vennero arrestati con l’accusa di omicidio e - dopo una richiesta di pena di morte da parte del pubblico ministero - il 23 luglio 2011 furono condannati all’ergastolo. A fine settembre 2012 la pena è stata confermata in appello. Da allora i due italiani aspettavano la sentenza definitiva nel carcere di Varanasi, dove il clima è torrido per gran parte dell’anno e la prigione particolarmente dura anche per gli standard indiani: i detenuti sono ammassati in “barak” da 140 persone e dormono per terra su stuoie e coperte, bevono acqua non potabile e condividono servizi igienici senza carta e acqua corrente.

Sulla storia di Tomaso ed Elisabetta ci sono state da subito molte ombre. Ai due non è mai stata concessa la libertà su cauzione e nemmeno il permesso di usare internet o telefonare a casa. Il processo si è trascinato tra ferie dei giudici, festività religiose, assenze degli avvocati e irreperibilità dei testimoni. Per il giudice che li ha condannati il movente del delitto era passionale ma «non dimostrabile per insufficienza di prove». Nonostante questa odissea giudiziaria, il caso di Tomaso ed Elisabetta non ha colto l’interesse della politica e dei media italiani, che dal febbraio 2012 si sono definitivamente concentrati sul caso dei marò Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, i fucilieri della Marina italiana in servizio antipirateria su una petroliera accusati di aver ucciso per errore due pescatori indiani.

Davanti alla Corte Suprema Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni erano assistiti da Harin Rawal, l’ex avvocato dello Stato del Kerala che proprio nel “caso marò” ha messo in imbarazzo il Governo indiano sostenendo la stessa posizione dell’Italia. L’esame del loro caso era atteso dall’autunno del 2013, ma a forza di rinvii è slittato di un anno. Lo scorso settembre l’udienza è saltata per l’ennesima volta di un soffio: il giudice aveva finalmente considerato il loro procedimento, ma l’avvocato Rawal riteneva così certo un altro rinvio che non si è nemmeno presentato all’udienza. A dicembre la loro causa è stata finalmente discussa, cogliendo tutti di sorpresa.

Con l’assoluzione dei due italiani la Corte ne ha disposto l’immediata liberazione: l’ambasciata d’Italia in India ha avviato le procedure per il rilascio dal carcere e il loro ritorno in Italia, Tomaso ad Albenga, in provincia di Savona, ed Elisabetta a Torino. Anche grazie alla raccolta fondi lanciata on line – il gruppo a loro dedicato su Facebook sfiora gli 8 mila membri – la storia presto diventerà un film, “Più libero di prima”: un documentario sulla capacità di affrontare l’imprevedibilità della vita, a volte ingiusta e inesorabile, che può toccare chiunque. Il film sarà diretto dal regista Adriano Sforzi, vincitore di un David di Donatello e amico di Tomaso sin da bambino. La prigionia sarà raccontata attraverso gli occhi di Tomaso, un ragazzo inquieto, benestante e viaggiatore che nei cinque anni di cella ha letto e scritto migliaia di lettere, ritrovando la libertà interiore proprio grazie all’ingiustizia subita.