Spietato, ripugnante, diabolico. Che però le cose le fa. E colpisce il pubblico stanco di un parlamento paralizzato. Per il grande attore americano, questo è il segreto della serie cult. Che torna ?in tv. E che a qualcuno ricorda Renzi... 

Perché un politico spietato come Frank Underwood piace tanto? «Perché è uno che le cose le fa. Non ha ideologia, non è legato a un partito o a qualcuno o a qualcosa, è uno che vede un’opportunità e ci si butta. Ed è diabolico». Kevin Spacey ha pochi dubbi sulle motivazioni che hanno trasformato il protagonista di “House of Cards” in una figura di culto. Tra i fan ci sono alcuni degli uomini più potenti del pianeta. Come Barack Obama, che quando a causa degli impegni alla Casa Bianca non ha potuto seguire in diretta il lancio della seconda serie ha twittato: «Non rovinatemelo». O da noi Matteo Renzi, che ha spronato la direzione del Pd a studiare la fiction come manuale di formazione politica:«Lo so che qualcuno si metterà le mani nei capelli, ma anche imparare da un racconto è importante». Dalla leggendaria scuola delle Frattocchie, dove per decenni sono stati educati i quadri comunisti, a una serie tv dominata dal cinismo di un parlamentare americano, che a sua volta si ispira a un altro illustre fiorentino, Niccolò Machiavelli. Il gioco di specchi nei modelli illustri potrebbe andare ancora più a fondo, perché la sceneggiatura si basa sul best seller di Michael Dobbs, uno dei consiglieri di Margaret Thatcher, altra statista spesso citata come riferimento del premier. Che come il personaggio di Kevin Spacey è passato dal controllo dei democrat al vertice del governo.

Il primo capitolo si è chiuso con Underwood a un passo dalla nomina a vicepresidente degli Stati Uniti. Martedì 23 settembre la seconda stagione della serie tv è in onda anche in Italia in esclusiva su Sky Atlantic e disponibile anche su Sky Online. Negli States è stata trasmessa dalla mezzanotte di San Valentino, con lo spettacolo della lotta di potere che ha preso il posto delle commedie romantiche. Una meditazione sull’immoralità della politica non è stata la scelta più ovvia per celebrare la festa degli innamorati. Ma la forza della sceneggiatura sta anche nella capacità di narrare sentimenti a trecentosessanta gradi.

Oltre agli intrighi e le menzogne e i ricatti, Frank Underwood ama a suo modo pure sua moglie Claire: l’attrice Robin Wright, l’eterea Jenny di “Forrest Gump“ che qui è una moderna Lady Macbeth priva di scrupoli quanto e forse più di lui. «Con me non ti annoierai mai», le dice quando le propone di sposarlo. E devono averla pensata così anche milioni di americani che hanno trascorso San Valentino scaricando i 13 nuovi episodi da Netflix, l’astro nascente di un modo rivoluzionario di fare televisione che proprio con questa serie si è imposta nella produzione.

Ma “House of Cards” è soprattutto lo   show di Kevin Spacey, un sociopatico manipolatore che non distrugge i suoi nemici ma li conduce all’autodistruzione. Due Oscar, uno per “I soliti sospetti” e l’altro per “American Beauty”, Spacey dal 2003 risiede principalmente a Londra dove ha preso la direzione del Old Vic. Tra le rappresentazioni di maggiore successo alla guida dello storico teatro londinese c’è un ”Riccardo III” che ha convertito anche i più scettici dei suoi critici britannici. E come il tiranno shakespeariano, anche il suo potente e cinico deputato spesso si rivolge direttamente al pubblico spiegando con sguardo complice il suo ultimo e ignobile complotto. O commentando con parole pungenti l’ingenuità dell’ultima delle sue vittime.



Che cosa ci dice il successo di “House of Cards”? E di show come “Scandal” o “Boss” che si inoltrano con la fiction nel lato oscuro del potere al massimo livello. Ci si può leggere qualcosa sull’umore e i sentimenti del Paese?
«Non lo so, forse gli spettatori sono così frustrati dalla politica e dalla paralisi e dalla mancanza di progresso che ora sono più disposti ad accettare un’idea di democrazia tutt’altro che ideale, alla “The West Wing”(una serie liberal di fine anni Novanta sulla Casa Bianca ndr). Mi piaceva molto “The West Wing” ed è bello pensare che la democrazia può esere gestita in quel modo. Ma alla fine queste sono solo delle fantasie. Ed è sempre difficile cercare di spiegare perchè qualcosa funziona e il pubblico risponde. Il casting, la sceneggiatura,  il montaggio, chi lo sa. A noi è andata bene, abbiamo trovato il nostro pubblico»

Quanto bene conosce il mondo della politica?  Pensa di capirlo?
«Mi interesso di politica e ci gravito attorno sin da quando ero al liceo. Ho messo lettere dentro le buste per Jimmy Carter quando si è candidato alla presidenza nel 1976. Ho lavorato per Ted Kennedy nel 1980. Ho fatto un bel po’ di lavoro per il presidente Clinton prima, durante e dopo gli anni a Washington. Alla Casa Bianca ci sono stato spesso, come alla Camera e al Senato. Ho partecipato a molti eventi non da spettatore ma da maestro di cerimonie. Posso dire di avere visto molto della politica. Ma sono anche uno che ha fatto un sacco di teatro e un sacco di Shakespeare e l’avere fatto il Riccardo III prima di “House of Cards” mi ha dato la possibilità di conoscere bene il personaggio su cui Francis è stato fondato. Quindi questo mio personaggio lo conosco bene, ma una delle cose più belle dell’essere parte di questa serie è tutto ciò che invece non so e non conosco. Non arrivo al lavoro ogni giorno dicendo: oh, Francis lo conosco. No, arrivo e ogni giorno scopro cose nuove, perché il mio è un personaggio che evolve e un’esperienza creativa. Ed è eccitante, perché abbiamo solo una vaga idea di dove andiamo e della traiettoria che seguiremo e ogni giorno è una sorpresa». 

Tra gli elementi che distinguono questo da altri show c’è che non avete mai fatto il tradizionale episodio-pilota e che Netflix vi ha commissionato sin da subito due stagioni.
«E questo è stato determinante, perchè quando fai l’episodio-pilota sei costretto a mettere dentro i primi 45 minuti tutti i personaggi e a creare dei momenti di suspense arbitrari e quello non è necessariamente il processo naturale che avresti seguito per presentare la tua storia. Invece siamo stati in grado di evolvere in modo naturale, di introdurre i  nuovi personaggi al momento giusto. E con due stagioni e 26 episodi o, come li chiamiamo noi capitoli, assicurati è cambiato tutto. È cambiata l’evoluzione della storia, lo sviluppo delle relazioni, lo spazio dato ai vari eventi. È stato come fare un lungo film, e come poi lo abbiamo distribuito non conta granché, perché la cinepresa non sa se alla fine le cose finiscono in streaming o in Rete o in un cinema. È solo una cinepresa».

Però negli States lo avete distribuito come appunto un lungo film, tredici episodi uno dopo l’altro, dando vita al fenomeno del “binge-watching”: un’abbuffata ininterrotta di puntate per ore.
«Quello non lo abbiamo inventato noi, il binge-watching è iniziato con i cofanetti di Dvd. Ma è vero che siamo stati la prima serie con questo tipo di distribuzione, una decisione alquanto coraggiosa. E in linea con ciò che il pubblico richiede. Penso che rispondendo alla richiesta dei suoi spettatori Netflix sia stato molto moderno e progressivo, che abbia capito che ciò che la gente vuole è il controllo. I telespettatori non vogliono più sentirsi dire che questa cosa la devono per forza vedere martedì alle otto, perché le loro vite sono molto complicate e hanno la famiglia e il lavoro e sembrano apprezzare il fatto che se questo è ciò che vogliono possono guardarsi l’intera stagione di una serie nel corso di un weekend. Chissà, forse Netflix ha capito la lezione che l’industria musicale invece non ha imparato e cioè che devi dare alla gente ciò che vuole, quando lo vuole nella forma che vuole e a un prezzo ragionevole. E che se fai così è più probabile la gente compri invece di rubare, che si riesca anche a combattere il fenomeno della pirateria».

Mr. Spacey,  il suo è un volto popolare e riconoscibile da due decenni. Adesso è nei salotti della gente. Che cosa cambia?
«Ho una vita straordinaria, lavoro con persone che ammiro in ambienti molto creativi. E in nessuna maniera ho mai sentito che la serie televisiva ha invaso o limitato la mia vita, è stata solo un piacere. Se la gente mi ferma per la strada perlopiù è molto gentile e vuole parlarmi dei miei personaggi. Li chiama per nome, come se fossero reali per loro. E questa è la soddisfazione più grande che puoi avere come attore: che tra le tue tante performances - e so bene che ce ne sono state tante da buttare- sono stato in grado di avere fatto abbastanza film e abbastanza lavori che reggeranno al test del tempo, che ci sono dei personaggi che ho creato che stando ai miei spettatori hanno assunto una loro vita. E questa è una cosa che apprezzo davvero».

Pensa sarebbe un buon politico? Si vede un giorno nelle vesti di Onorevole o Presidente Spacey?
«Non potrei essere un buon politico perché sono uno cui piace fare le cose. E non potrei mai esercitare una professione dove sai già in partenza che non potrai avere successo e che sarai frustrato ogni singolo giorno della tua vita, non ha senso. E dove il poter raggiungere un obiettivo dipende da 218 altre persone (218 è il numero di voti necessari per avere la maggioranza nella Camera Usa, ndr). Sarebbe impossibile per me, non so come fanno. Con questo non voglio dire che non ammiro chi si dà al servizio pubblico. Ammiro i politici efficaci e ce ne sono. Ma non sono interessato a condurre quella vita, solo a rappresentarla».

Le capita mai come a Francis Underwood di volersi vendicare?
 «Credo nel Karma e credo che se qualcuno mi fa un torto verrà investito da un camion. Ma non mi troverete mai al volante!».