“La mattina del 22 settembre del 1955 ci trovammo per la prima volta, Benedetti, io ed altri nove colleghi, all’indirizzo di Via Po 12". Così Eugenio Scalfari ricorda la nascita del nostro settimanale. Il nostro omaggio per il suo compleanno

Correva l’anno 1955. Era una bella mattina di primavera quando una strana coppia faceva il suo ingresso in uno dei moderni palazzi della società Olivetti, ad Ivrea. Un uomo alto, magro, con i capelli scuri e ricci, poco più che trentenne, e un signore bassotto che di capelli ne possedeva parecchi di meno ma aveva una quindicina d’anni e un po’ di chilogrammi in più del suo compagno. Eugenio Scalfari e Arrigo Benedetti andavano a trovare Adriano Olivetti, figlio del fondatore dell’industria di macchine da scrivere e imprenditore illuminato quanto altri mai.

L’ex funzionario di banca esperto di economia e il romanziere senza gloria ma innovativo creatore e direttore di settimanali, che in realtà si chiamava Giulio, passarono tutta la mattinata a esporre al fondatore del Movimento di Comunità e mecenate il loro progetto (portavano con sé un piano editoriale e uno industriale) maturato in alcuni anni. Volevano pubblicare un quotidiano, ma un quotidiano speciale: un settimanale che uscisse tutti i giorni, con la completezza dell’informazione e gli approfondimenti tipici dei periodici di qualità ma la freschezza e la tempestività del day by day, oltreché, naturalmente, con un’impronta politica liberal-riformista e radicaleggiante.

Olivetti, dopo aver ascoltato e a lungo interrogato, guardò negli occhi, in silenzio, per due minuti i personaggi che aveva di fronte, causando loro un non piccolo imbarazzo, cercando di capire se e fino a che punto le loro intenzioni fossero salde: “Quei due minuti ci sembrarono un secolo”, ricorda Scalfari. Quindi Adriano si prese qualche giorno di tempo per decidere.

Al successivo appuntamento l’industriale comunicò ai due che finanziare un quotidiano era troppo gravoso anche per le sue capaci tasche (si parlava di un paio di miliardi del tempo) a meno che… A meno che non sopraggiungesse un cavaliere bianco con congrua dote. E l’imprenditore di Ivrea suggerì i nomi di Vittorio Valletta (Fiat) e di Enrico Mattei, capo del già gigantesco Eni. La scelta cadde sul secondo. Se Mattei ci stava, Olivetti avrebbe fatto la sua parte.

Scalfari e Benedetti, sia pure con qualche dubbio per via della matrice cattolica e della vasta e talora poco presentabile rete di collegamenti politici del padre-padrone dell’Eni, andarono a proporgli la partita. Mattei si dichiarò disponibile ma nel frattempo Adriano aveva avuto un ripensamento. Una società fra lui e Mattei era come un pasticcio di allodola e cavallo: troppa sproporzione, non si poteva fare. Il padrone dell’Olivetti propose quindi a Benedetti e Scalfari di fare un settimanale, un impegno per lui sostenibile senza bisogno di partner troppo ingombranti. E così fu.



I ragazzi di via Po

“La mattina del 22 settembre del 1955 ci trovammo per la prima volta, Benedetti, io ed altri nove colleghi, all’indirizzo di Via Po 12 (che fu sede dell’“Espresso” per cinquant’anni, ndr.). Occupavamo allora quattro stanze e uno stanzino, più una toilette; le finestre erano a piano terra e davano sulla strada… Dire che quella mattina, in quei pochi metri quadrati di spazio, ci fosse animazione è dire assai poco: eravamo agitati, emozionati, felici, impauriti allo stesso tempo. Sembrava di partecipare al varo d’una nave, della quale però nessuno… conosceva con esattezza forma, dimensioni e strutture” (E. Scalfari in “La sera andavamo in Via Veneto”). Il parto, ovvero la prima uscita del settimanale, avvenne il 2 ottobre.

La rapida nascita de “L’Espresso” fu favorita dalla contemporanea scomparsa di un altro settimanale, “Cronache”, di cui la creatura di Benedetti e Scalfari ereditò sede e redazione. Il progetto era comunque molto ambizioso: rispetto al “Mondo” di Mario Pannunzio, per dirla con le parole del fondatore, si voleva passare “da un giornale di gruppo a un giornale per il mercato, da un club politico ad un’azienda editoriale”.

Il formato-lenzuolo

Del primo numero si vendettero centomila copie che successivamente si ridussero a 60/70mila. Un buon risultato, ma insufficiente a far quadrare i conti. Il famoso formato-lenzuolo del primo “Espresso” era una scelta che “ci avrebbe differenziato da tutti gli altri settimanali”, spiega Scalfari, ma anche un modo per risparmiare parecchio sulla carta e sulla stampa, quest’ultima rigorosamente in bianco e nero.

“La politica, notizie e inchieste, occupava le prime tre pagine; la quarta era dedicata ai commenti di politica interna ed estera firmati da collaboratori illustri; seguiva l’economia…”, ricorda Scalfari. Ed era forse proprio quest’ultima, l’economia, ovvero il trattamento delle notizie economiche fino ad allora riservate agli addetti ai lavori, una delle principali novità dell’“Espresso” rispetto ai suoi concorrenti e il campo in cui il contributo innovativo di Scalfari si fece sentire più nettamente. Per la prima volta i fatti economici e finanziari venivano trattati sulla stampa in modo rigoroso ma comprensibile a un vasto pubblico, con informazioni che giungevano da fonti molto qualificate (si pensi agli scritti di Bancor, ovvero ai commenti del governatore della Banca d’Italia Guido Carli rielaborati dalla penna di Scalfari).

I “padroni del vapore”

Benedetti fu il direttore del nuovo giornale mentre Scalfari ne fu il direttore amministrativo. Una configurazione che durò a lungo. L’assetto proprietario, invece, cambiò dopo appena un anno. Le corrosive inchieste del periodico, soprattutto quelle sui “padroni del vapore”, fecero imbestialire i “poteri forti”. Dagli ambienti confindustriali si fece sapere agli iscritti che non era il caso di fare pubblicità su “L’Espresso”. Non solo: poiché il maggiore azionista del giornale dei ragazzacci di Via Po era Adriano Olivetti, era auspicabile che gli associati non acquistassero per le loro aziende macchine da scrivere prodotte a Ivrea.

Le pressioni su Olivetti perché mettesse in riga quella redazione di ribelli si fecero sempre più intense. Allo stesso tempo Adriano, dopo aver coltivato l’idea che “L’Espresso” potesse divenire l’amplificatore dei suoi astratti ideali comunitari, si rese conto che il settimanale aveva una linea liberal-radicale che con quelli aveva poco a che fare e che non ci sarebbe stato verso di cambiarla.

Stretto in questa tenaglia, Olivetti decise di gettare la spugna. E lo fece da gran signore: non cercò di recuperare il suo investimento su “L’Espresso” (circa 125 milioni del tempo) e donò il suo 70 per cento di azioni in gran parte a Carlo Caracciolo (proprietario della concessionaria di pubblicità) e, in parte minore, a Scalfari e Benedetti.

La staffetta Benedetti-Scalfari

Cominciò allora il lungo sodalizio fra Barbapapà (che ancora non aveva la barba lunga) e il principe di Castagneto, tandem affiatato che contribuì non poco ai successi del gruppo editoriale. Per inciso, Caracciolo era fratello di Marella, consorte di Gianni Agnelli, e questo causò non pochi grattacapi all’Avvocato, spesso a torto ritenuto da personaggi dell’establishment il mandante delle  battaglie condotte dal settimanale.

Dopo otto anni Benedetti lasciò la direzione e Scalfari salì a tutti gli effetti sul ponte di comando dove rimase per un lustro, finché divenne deputato, eletto con il Psi. In quegli anni “L’Espresso” introdusse le prime otto pagine a colori che contribuirono a conquistare un po’ di pubblicità in più e anche nuovi lettori. Inoltre nacque un supplemento interamente a colori, di formato assai più piccolo del “lenzuolo” principale.
Per Scalfari la redazione non doveva essere soltanto un luogo di lavoro ma una scuola. E non vi è dubbio che questa sua radicata convinzione contribuì parecchio alla crescita di una leva di giornalisti che fecero non solo la fortuna de “L’Espresso” ma rivitalizzarono molte altre testate italiane e certamente contribuirono al grande successo di “Repubblica”.

La barra del timone di Scalfari direttore aveva una direzione chiara, resa esplicita fra l’altro in un articolo scritto nel ’67, in occasione del definitivo abbandono del settimanale da parte di Benedetti: “Noi il nostro campo l’abbiamo scelto da molto tempo e una volta per tutte: siamo contro tutte le dittature di qualsiasi colore, sovietiche, greche, spagnole o nasseriane che siano; siamo contro la violenza e l’incitamento alla violenza da qualunque parte provenga… Siamo, dovunque, con le colombe e contro i falchi, anche se è vero che talvolta, per sopravvivere, le colombe debbono mettere becco e artigli. Per difendersi. Mai per aggredire”.

L'irriverenza verso il potere

Una “cifra” sempre presente nell’“Espresso” scalfariano fu inoltre quella che il fondatore chiamava l’“irriverenza verso il potere” assieme alla “pretesa”, come ha scritto Alberto Asor Rosa, “di ricondurre l’Italia entro gli schemi di un normale paese democratico europeo”, obbiettivo che andava perseguito in particolare attraverso la “denuncia di quel tessuto segreto di complicità e di oscure alleanze che ha avvelenato così spesso dietro le quinte la vita politica e civile del nostro paese”. In termini più diretti, Scalfari con “L’Espresso”, e più tardi con “Repubblica”, puntò sempre a scoperchiare il “verminaio” sollevando “i macigni delle complicità e delle omertà” (Asor Rosa). Che con queste ambizioni fin da allora si cominciasse a parlare di un “giornale-partito” non può stupire, né pare che Scalfari sia mai stato scandalizzato da questa etichetta.

Definizioni a parte, quel che è certo è che nella dozzina d’anni successivi alla fondazione il periodico accrebbe di molto la sua influenza politica grazie a inchieste che tutt’ora i meno giovani ricordano. Fra le più note, quella sul “sacco di Roma”, sugli scandali delle aree improvvisamente e improvvidamente divenute edificabili, che culminò nel titolo, ormai storico, “Capitale corrotta = Nazione infetta”, o quella, diversi anni dopo, sul “Caso Sifar” e il “Piano Solo”, riguardante il “rumore di sciabole”, ovvero le manovre golpiste per tenere lontani i socialisti dal governo, o, ancora, i numerosi servizi sulla nazionalizzazione delle imprese elettriche, il crescente potere dei boiardi di Stato, Eugenio Cefis in primis, il mutamento morfologico della classe imprenditoriale: in sintesi la nascita di quella che Scalfari e Giuseppe Turani battezzarono, in un fortunato volume del ’74, la “Razza padrona”.

Né si possono dimenticare i numerosi reportage e gli approfondimenti, nonché i servizi fotografici, dedicati al Vietnam prima ancora che le piazze di tutto il mondo occidentale si riempissero di giovani e meno giovani che protestavano per quella guerra e contro l’“aggressione” americana. Un tema di politica estera che, assieme alle posizioni assunte dal settimanale sul conflitto arabo-israeliano, contribuì ad approfondire il solco che si era creato fra Scalfari e il suo predecessore e a determinare il definitivo distacco di quest’ultimo dal settimanale.

Dal “lenzuolo” al tabloid

Conclusa la parentesi parlamentare nel ’72, Scalfari riprese appieno ad occuparsi dell’“Espresso” come editore e come editorialista - la direzione essendo stata assunta da Livio Zanetti che, fra l’altro, gestì il fortunatissimo traghettamento dal formato “lenzuolo” a quello tabloid -. Ma già da allora il fondatore cominciò a lavorare alla realizzazione del suo vecchio sogno, un quotidiano, che vide la luce nel gennaio del ’76 anche grazie ai notevoli guadagni che da parecchi anni il settimanale aveva cominciato a produrre.