I clan calabresi parlano umbro. L'operazione del Ros dei carabinieri ha smantellato un cosca con base in provincia di Perugia che ha seminato il panico tra gli imprenditori. Alcuni di questi hanno parlato. E raccontato delle minacce. Anche pizzo e prostituzione tra le attività dei boss

L'Umbria si è svegliata con il rumore degli elicotteri tipico delle grandi retate. Il risveglio ha il sapore della 'ndrangheta. Il Ros dei carabinieri hanno eseguito 61 arresti nell'inchiesta "Quarto passo" coordinata dalla procura antimafia di Perugia. Sotto scacco una "filiale" del clan di Cirò e Cirò Marina, paesi di origine delle persone finite in manette.

Il gruppo umbro ruota attorno a Cataldo Ceravolo, Salvatore Facente e Mario Campiso. Questi sono i tre indagati ritenuti i capi del clan umbro. Si vantavano di conoscere i capi delle 'ndrine di Cirò, in particolare la famiglia di 'ndrangheta Farao-Marincola. Associazione mafiosa, usura, estorsioni, traffico di droga, incendi, truffe, prostituzione, sono i reati contestati. Molte le vittime locali. Chi non si allineava alle loro richieste avrebbe fatto una brutta fine: «Perché in Calabria è consuetudine murarli nelle gettate di cemento».

È stata scopera inoltre l'alleanza con un gruppo criminale di origine albanese per la gestione del traffico di eroina e cocaina. Nel 2008 c'è stata l'indagine “Neos” che ha riguardato gli affari della cosca Morabito di Africo, provincia di Reggio Calabria, nell'isola felice. Sei anni fa gli arresti furono 57. La storia si ripete.

Nell'ultima operazione sono stati sequestrati beni per oltre 30 milioni di euro. «Un'associazione - scrivono gli investigatori - autonoma, radicata». Che manteneva i contatti con la casa madre, ma con un certo grado di autonomia. «L'inchiesta - si legge nell'ordinanza di custodia cautelare - ha documentato le modalità tipicamente mafiose di acquisizione e condizionamento delle attività imprenditoriali, in particolare nel settore delle costruzioni, con incendi e intimidazioni con finalità estorsive».

Usura e estorsioni spesso erano l'anticamera dell'acquisizione dell'azienda pulita. I carabinieri di Perugia hanno inoltre documento diversi incontri tra la cellula umbra con gli emissari dei reggenti della cosca di Cirò, Silvio Farao e Giuseppe Farao. Il lessico, il metodo, le azioni sono tipici della mafia calabrese. «Siamo della 'ndrangheta, siamo calabresi». Così si presentavano gli affiliati che ormai da quindici anni vivevano nella tranquilla provincia perugina.E qui lavoravano nei cantieri con le proprie società: «Ai calabresi ho assegnato i lavori di scavo, di carpenteria, cemento armato e tamponature esterne. Sempre in quell'anno ho assegnato ai calabresi i lavori di carpenteria, acquistando a loro favore il relativo materiale, per la costruzione di quattro villette in località San Marino di Monte La Guardia» racconta un testimone.

Nell'inchiesta ci sono tantissimi testimoni che hanno denunciato agli inquirenti le minacce, che si concludevano tutte con l'offerta di “protezione” da loro stessi. Incendi e danneggiamento delle macchine delle aziende. Ma anche teste mozzate di agnello e benzina lasciati davanti agli uffici della ditta, come è capitato a una piccola imprenditrice di Perugia. Non solo. Gli indagati si vantavano pure di saper sparare. Una delle vittime lo spiega ai detective :«Mi ha più volte rivolto le medesime minacce dicendomi che avrei dovuto consegnargli oggi 6 mila euro ed i restanti 5 mila o 6 mila entro il mese di gennaio-febbraio; mi ha anche detto che il garante di tutta questa operazione era lui e che se avessi pagato non avrei più avuto problemi, perché lui era uno che "sparava"».

Un altro imprenditore ha raccontato: «Mi hanno costretto a fare ciò a seguito di continue pressioni e minacce, mi dicevano che era meglio per me aderire alle loro richieste per evitare con loro problemi e guai. lo avevo paura di loro e quindi aderivo alle loro richieste». Insomma, in Umbria la 'ndrangheta si sente a casa.