"Non è ammissibile morire dopo essere stati legati per oltre 90 ore, nemmeno nel caso di crisi psicotica acuta". Ignazio Marino, presidente della Commissione d'inchiesta sul servizio sanitario, commenta l'agonia del maestro. E dice: "Se continua la politica dei tagli, la contenzione sarà usata sempre di più"

Non c'è giustificazione alla morte di Franco Mastrogiovanni. Le responsabilità personali saranno giudicate in tribunale ma non si può nascondere che nell'Italia del Ventunesimo secolo la contenzione è purtroppo una pratica in uso in molte situazioni. Medici e infermieri vi ricorrono spesso costretti dalle circostanze, dalla carenza di personale, dall'esigenza di mettere in sicurezza un ammalato che rischia di farsi male. L'ideale sarebbe evitarla sempre e fare sì che un infermiere stia accanto al malato in maniera ininterrotta per intervenire in caso di pericolo. Ma la realtà degli ospedali è molto diversa, e allora si accetta il male minore quando non è possibile fare altrimenti.
Detto questo, nel dramma di Franco Mastrogiovanni non vi è alcuna giustificazione né medica né organizzativa: non è ammissibile morire dopo essere stati legati per oltre 90 ore, nemmeno nel caso di crisi psicotica acuta.

Il nuovo direttore del dipartimento di salute mentale della Asl di Salerno, Luigi Pizza, davanti alla Commissione d'inchiesta sul Servizio sanitario nazionale, ha illustrato le condizioni di un reparto obsoleto, la carenza di procedure per gli operatori, l'assenza del registro delle contenzioni. Una situazione fuori controllo in cui le vittime sono i pazienti. Ma di cosa è stato vittima Mastrogiovanni? Delle disfunzioni, dello scaricabarile, del disinteresse, dell'ignoranza?

Una cosa è certa: non vi è stato nemmeno il tentativo di stabilire un rapporto tra terapeuta e paziente, una relazione che dovrebbe configurasi come una protezione, un abbraccio di cui fidarsi. Molti psichiatri sostengono che la contenzione può essere una risorsa per pochi minuti in caso di crisi ma, per fare diminuire la tensione, la strada passa per l'apertura di un dialogo che conduca all'accettazione della cura.
Questo è l'approccio migliore dal punto di vista terapeutico. La realtà che conosciamo dimostra invece che in molti casi la contenzione è praticata, e vissuta, come privazione della libertà, come umiliazione e mortificazione, impedendo lo sviluppo di un rapporto sereno tra il paziente e il suo medico. Ricorrere a un atto violento per rispondere alla sofferenza è sbagliato e dannoso.

È l'eredità di una vecchia concezione della psichiatria e di tradizioni che in passato venivano applicate nelle case di riposo per anziani, nei reparti di geriatria, negli istituti per disabili e soprattutto nei manicomi prima della loro chiusura. Sono pratiche che non vogliamo più tollerare.

Contro tutto questo si lavora da anni e in molte realtà le cose sono cambiate davvero, grazie all'impegno di operatori formati e motivati, in grado di instaurare anche con i malati più gravi un clima libero da vessazioni.

Un amico psichiatra mi ha raccontato che un giorno, per assistere un paziente in piena crisi psicotica arrivato nel suo reparto in manette accompagnato dai poliziotti, ha dovuto negoziare per tre ore, aiutato dai colleghi, prima di convincerlo a prendere un ansiolitico che gli ha permesso di dormire e di risvegliarsi più tranquillo.

Mezza giornata per un solo paziente è un lusso che la sanità pubblica non si può permettere? Può darsi. Ma se si continueranno a ridurre le risorse al welfare e alla salute, come è accaduto in questi anni con 21 miliardi di tagli al Servizio sanitario nazionale, a psichiatri, psicologi, infermieri volenterosi ma a corto di mezzi e risorse umane, non resterà che legare i malati ai letti per ridurre il danno, sbrigarsi e fare fronte alla prossima emergenza.