Il ministro del Pnrr brandiva i rapporti della magistratura contabile per denunciare la gestione del Piano del governo Draghi. Ora ne ha limitato i poteri

Tutti in acqua! «Durante il soggiorno sarà possibile usufruire della piscina termale della struttura alberghiera», precisa infatti il bando. Ma ci mancherebbe altro. Perché allora i corsi si dovrebbero tenere all’Hotel Royal Terme di Valdieri, «un tempo residenza della corte sabauda, immerso nel cuore del Parco Naturale Alpi Marittime», come informa il sito internet? E volete che in un paradiso del genere non si organizzi «una serata sulla storia delle Terme Reali», oppure «una osservazione del cielo notturno senza inquinamento luminoso con la guida di astrofili esperti» o magari «una semplice escursione in montagna verso la palazzina di caccia del Re Vittorio Emanuele»? È il momento migliore dell’anno. I corsi di cui sopra, cui potranno partecipare previa ammissione come da bando 320 docenti delle scuole di ogni ordine e grado e provenienti da tutta Italia, si svolgono d’estate, in due sessioni. La prima dal 3 al 10 luglio, per riprendersi dalle fatiche dell’anno scolastico. La seconda, dal 3 al 9 settembre: giusto in tempo per tornare in classe.

 

L’iniziativa è del Liceo Statale Silvio Pellico-Giuseppe Peano di Cuneo. E per quanto possa apparire singolare, è finanziata con i soldi del mitico Pnrr. Nel Piano nazionale di ripresa e resilienza esiste un progetto specifico per la «formazione alla transizione digitale del personale scolastico», con un accordo fra il liceo di Cuneo e l’Unità di Missione del Pnrr firmato il 16 marzo scorso. Nel meraviglioso scenario delle Alpi marittime, fra una passeggiata nel Parco Naturale e un tuffo nella piscina termale i docenti familiarizzeranno con «l’introduzione alla didattica ludica», la «robotica a scuola» e la «matematica in ambiente gaming». Si può stare certi che i risultati saranno pienamente raggiunti, e la Corte dei Conti non avrà nulla da dire. Ma anche volendo, non potrebbe.

 

Il 21 giugno, giorno in cui scadeva il bando per i corsi di formazione all’Hotel Royal Terme di Valdieri, è diventato legge l’emendamento del governo che sottrae ai giudici contabili il cosiddetto «controllo concomitante» sull’uso dei fondi europei del Pnrr. Di che cosa si tratta? È il potere di mettere becco su come si spendono i soldi pubblici non soltanto dopo che sono stati spesi, ma già nel momento in cui si spendono. Il «controllo concomitante» era stato introdotto in uno dei decreti legge del 2020, durante la pandemia, allo scopo di mettere al sicuro da incidenti di percorso (e ruberie) «i principali piani, programmi e progetti relativi agli interventi di sostegno e di rilancio dell’economia nazionale…». Vista la valanga di denaro pubblico in gioco, era sembrata una cosa di buon senso. Per spazzarlo via, al governo di Giorgia Meloni sono bastate 13 parole, aggiunte in fondo al periodo: « (…) ad esclusione di quelli previsti o finanziati dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza».

 

Di casi come quello che abbiamo raccontato ce ne sono fin troppi. Uno dei problemi del Pnrr è l’eccessiva polverizzazione dei progetti: ne sono stati calcolati 80 mila di importo unitario inferiore ai 70 mila euro. Con enormi problemi di realizzazione. Lì dentro si trova qualunque cosa, perfino più sorprendente di un corso di formazione alle terme. E chissà i problemi che i magistrati contabili potrebbero sollevare. Ma l’abolizione di quel «controllo concomitante», che ha aperto uno scontro al calor bianco fra apparati dello Stato, parte da ben più in alto.

 

Da mesi la Corte dei Conti punzecchiava il governo sui ritardi dei singoli progetti, senza peraltro neppure assolvere i predecessori. Ma quello che c’è scritto nel Rapporto sul Coordinamento della Finanza Pubblica pubblicato a maggio aveva fatto impazzire il ministro responsabile del Pnrr, Raffaele Fitto, diventato ora l’ariete di Fratelli d’Italia dopo un inconcludente peregrinare nel centrodestra. La Corte dei Conti denuncia che a tre anni dalla scadenza del Piano è stato impiegato appena il 13,4 per cento delle risorse, con un vistoso rallentamento nei primi mesi del 2023 e stati di avanzamento sotto il 5 per cento per l’istruzione e addirittura l’1 per cento per la sanità. Che poi sarebbero i settori più bisognosi: al netto dei corsi di formazione per i docenti scolastici negli hotel termali bisogna ricordare che metà delle scuole italiane versa in condizioni fisiche disastrose e che alla sanità pubblica, oltre ai soldi, mancano migliaia di medici e infermieri. Perciò i giudici suggeriscono di darsi una mossa, sottolineando che la revisione delle iniziative voluta da Fitto non è ancora andata in porto. Mentre il tempo stringe.

 

Il suggerimento, tuttavia, non è stato affatto gradito dal governo Meloni. Anche perché il rapporto ha demolito senza pietà le fondamenta di una narrazione propagandistica tutta tesa a incolpare dei ritardi il precedente governo di Mario Draghi. Svelando invece con quei numeri inefficienze, errori e titubanze dell’attuale gabinetto. Così è scattata quella che si può tecnicamente definire una vendetta. Intendiamoci: la Corte dei Conti non è infallibile, e chi si lamenta perché certe volte sono proprio le sue procedure a complicare inutilmente le cose non ha per forza torto. Ma tutte le volte che i giudici contabili ficcano il naso in faccende sensibili per chi sta in quel momento al potere, guarda caso, la prima cosa che si cerca di fare è dargli una spuntatina alle unghie. Lo fanno tutti i governi, destra o sinistra. Qualche volta è solo una minaccia, qualche altra invece accade.

 

Mai però come in questa circostanza la vicenda risulta colma di paradossi. A cominciare dalle dichiarazioni e dagli atti di cui è stato protagonista l’ispiratore della ritorsione. «La relazione della Corte dei Conti conferma i nostri timori sul Pnrr!», tuonava Fitto dal suo scranno di Strasburgo nell’agosto scorso. Lui, che secondo il senatore del Pd Francesco Boccia il piano europeo l’aveva snobbato al punto da non votarlo neppure, ma già evidentemente si sentiva investito del futuro compito di gestirne i miliardi, pochi mesi fa brandiva in campagna elettorale un documento dei magistrati contabili, ovvero la relazione precedente a quella finita sul banco degli imputati, come fosse il giudizio dell’Oracolo.

 

E con straordinario tempismo, qualche giorno prima della pubblicazione del rapporto incriminato Fitto metteva al vertice della struttura incaricata di gestire il Pnrr una vecchia conoscenza di quando lui era nel governo di Silvio Berlusconi, dal 2008 al 2011, come ministro per i Rapporti con le Regioni: l’ex capo del dipartimento Affari Regionali dipendente dal suo ministero, Carlo Alberto Manfredi Selvaggi. Magistrato di lungo corso della Corte dei Conti. Il quale per cinque anni è stato anche segretario dell’associazione dei giudici contabili, ora letteralmente furiosa con Fitto per il ridimensionamento dei poteri. E sentite come il ministro commentava, il 3 maggio, la nomina di Manfredi Selvaggi: «La scelta di un alto magistrato della Corte dei Conti, esperto nel vasto ambito dei fondi europei, denota l’attenzione e la cura del governo per il corretto utilizzo delle risorse Pnrr a beneficio dei cittadini, famiglie e imprese. È una scelta di responsabilità». Già. Certamente di responsabilità, e chissà, forse anche una scelta di opportunità. Magari un influente magistrato della Corte dei Conti al vertice del Pnrr poteva rappresentare un bel parafulmine. O magari no. Resta il fatto che poi il fulmine è arrivato, e la reazione rischia di essere inutile, se non addirittura controproducente. Perché anche senza il «controllo concomitante» della Corte dei conti Fitto se la dovrà sempre vedere con Bruxelles. Dove a differenza di Roma la faccenda, e la prevedibile irritazione, non si potrà risolvere con un emendamento.