Nelle Lettere da Torino, appare in bilico tra una luce accecante e la caduta nel buio del non senso

Non mi era capitato di leggere, né di conoscere, “Le lettere da Torino” di Friedrich Nietzsche; edite da Adelphi. Non aggiungono nulla al suo pensiero; forse è per questo che sono poco note e poco commentate.

 

Eppure, sono un testo a mio avviso importante per capire le dinamiche interiori del grande filosofo. Il suo itinerario fino alla follia. Una follia mai spiegata in termini di diagnosi clinica, che resta ancora un mistero. Che è, tuttavia, evidente nel suo progredire negli ultimi mesi del 1888, nei quali in modo frenetico e tuttavia lucidissimo, Nietzsche scrive due libri decisivi, in una manciata di giorni: “Il crepuscolo degli idoli” e “Ecce homo”. Perché “Le lettere da Torino” mi hanno colpito? Per la dinamica psicologica esistenziale che emerge con nettezza e che non mi pare sia stata colta pienamente. A Torino il filosofo sostiene di sentirsi bene, come mai nella sua vita. Esalta la città e lavora alacremente. Con una chiarezza di idee, così dice, che mai aveva avuto. In effetti, compone le sue pagine con un linguaggio “strizzato” che sintetizza un pensiero ad un tempo perfetto e sincopato. Ossessivo. In bilico tra una luce accecante e la caduta nel buio del non senso.

 

Sono portate all’estremo le sue tesi sull’annientamento del cristianesimo, sulla prospettiva dionisiaca, sulle maschere da assumere per scrutare meglio la verità. Le lettere di questo danno conto. Con affermazioni su di sé grandiose, enfatiche, minacciose.

 

Se questo è un filo chiaramente percorribile nel corso della corrispondenza, ve ne è un altro più sotterraneo ma altrettanto significativo. Nietzsche si intrattiene sugli aspetti più quotidiani e minuti della sua vita. Viene fuori un risvolto struggente, persino patetico. Sottolinea il beneficio che Torino arreca al suo animo. Che in quel luogo con pochi soldi riesce ad avere una buona camera, aperta ad una piazza circondata da un’architettura di pregio; che a un franco e venticinque centesimi mangia ogni giorno benissimo i piatti della cucina italiana che mai aveva gustato; che viene considerato da tutti un gran signore, riverito e accudito; che ha persino un sarto, con sua grande soddisfazione. A questo aggiunge di essere stimato da numerosi personaggi importanti della sua epoca. Finalmente! Alcune nobildonne di San Pietroburgo, l’affermato drammaturgo svedese Strindberg, due riviste culturali di Parigi (contatti in realtà abbastanza occasionali e radi, che però ostenta ad ogni interlocutore per testimoniare riconoscimenti che in cuor suo agognava disperatamente). Si nota quanto sia forte in quel periodo l’insicurezza e la fragilità della sua psiche. Da puntellare dall’esterno. Anche per placare la solitudine. Che rivendica, ma che in realtà lo atterrisce.

La chiave dell’esplosione della sua follia, il primo gennaio del 1888, a mio parere, sta nella divaricazione sempre più forte tra le due dimensioni della sua personalità. Il pensiero grandioso, con al centro egli stesso, e la realtà che si mangia le fondamenta dei suoi slanci “sublimi” e “danzanti”. Ad un certo punto i due poli strappano il tessuto mentale che li teneva ancora uniti.

 

Le lettere, ecco il punto, al di là di una diagnosi medica circa la follia di Nietzsche, ci dicono che la verità del suo pensiero non regge più la quotidianità del vivere. Da qui la loro importanza, da riscoprire.