La legge delega lascia definire punti cruciali all’esecutivo. Ma le aliquote dovrebbero deciderle le Camere

La Camera ha da poco approvato la legge delega sulla riforma fiscale, ora passata in Senato, un testo che attua un «cambio di passo epocale» come ha detto il viceministro Maurizio Leo, responsabile del testo stesso. Potenzialmente è così, ma aspetti cruciali della riforma, incluse le aliquote per quasi tutte le imposte, saranno definiti solo dai decreti legislativi che il governo è delegato a emanare.

 

Trovo curioso che il Parlamento deleghi, quasi in bianco, decisioni cruciali come le aliquote di tassazione al governo. Non c’è niente di più importante per un Parlamento della possibilità di fissare il livello delle tasse: «No taxation without representation», dicevano i rivoluzionari americani. Il livello di tassazione e la sua progressività sono l’essenza del potere del Parlamento dai tempi della Magna Carta.

 

Come imposto dalla Costituzione, la delega fissa i principi che i decreti legislativi dovranno seguire, ma in modo vago. Per l’Irpef, la legge dice che il governo deve procedere a «revisione e graduale riduzione dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, nel rispetto del principio di progressività e nella prospettiva della transizione del sistema verso l’aliquota impositiva unica, attraverso il riordino delle deduzioni dalla base imponibile, degli scaglioni di reddito, delle aliquote di imposta, delle detrazioni dall’imposta lorda e dei crediti d’imposta». Seguono poi indicazioni sulla tutela dei disabili, del nucleo familiare, della casa, ma tutto in termini generici.

 

Al momento abbiamo quattro aliquote (23, 25, 35 e 43%). C’è un mare di combinazioni di aliquote che rispettano i principi sopra indicati, ma che hanno enormi differenze per la progressività, anche per la genericità del riferimento alla «aliquota impositiva unica»: «prospettiva della transizione verso…» (non proprio rassicurante per chi vuole la flat tax). Sulla base del testo approvato potremmo, per esempio, avere quattro aliquote del 20, 30, 35 e 42% o tre del 25, 30 e 43%. O due del 15 e del 40% e così via, per non parlare dell’ampiezza degli scaglioni. Ma queste diversità sono fondamentali per la progressività e la giustizia sociale, cose che non si possano delegare a cuor leggero.

Altre leggi delega erano così vaghe? La legge delega che nel 1971 rivoluzionò il nostro sistema fiscale (n. 825 del 9/10/1971) era precisissima, definendo i 32 scaglioni di imposta e le corrispondenti aliquote (dal 10 al 72%). Stessa cosa per le altre imposte. Ma l’allargamento dei paletti nelle leggi delega è una manifestazione della tendenza allo svuotamento del ruolo del Parlamento, e delle opposizioni all’interno di questo, rispetto al governo.

 

C’è di peggio? Certo! La legge delega 3/12/1922, n. 1601, che iniziò il percorso verso la dittatura fascista, riguardava proprio la riforma fiscale. Diceva semplicemente: «Per riordinare il sistema tributario allo scopo di semplificarlo, di adeguarlo alle necessità del bilancio e di meglio distribuire il carico delle imposte; per ridurre le funzioni dello Stato, riorganizzare i pubblici uffici ed istituti, renderne più agili le funzioni e diminuire le spese, il governo del re ha, fino al 31 dicembre 1923, facoltà di emanare disposizioni aventi vigore di legge». Così inizia una dittatura. Spero, però, che nessuno ricorra a questo precedente per giustificare la vaghezza della corrente legge di riforma fiscale. Scherzo, naturalmente.