Tagli al welfare e classi agiate intangibili: la politica dell’Eliseo accresce le disuguaglianze e punta alla repressione. Non stupisce che le banlieue si infiammino ancora

È da almeno trent’anni – dall’omicidio di M’Bowolé che ispirò L’odio, il celebre film di Kassovitz – che le banlieue, luoghi banditi, si rivoltano. Il copione sembra lo stesso: la polizia (bianca) uccide un giovane (nero o arabo), la rabbia divampa, segue un’ondata di arresti. E il ritorno allo status quo. Bloccare l’analisi alla ciclicità del fenomeno, però, rischia non solo di “naturalizzarlo”, di deresponsabilizzare il governo e di far sembrare inattuabili le soluzioni possibili. Ma impedisce anche di comprendere come il quadro generale sia cambiato. E come il ritorno alla stabilità diventi sempre più difficile.

 

Le cause materiali, simboliche e repressive delle rivolte sono le stesse da trent’anni. Ma peggiorano d’intensità. La disuguaglianza economica è cresciuta: la crisi del 2008 e quella pandemica hanno schiacciato chi vive nelle banlieue. Oggi il tasso di povertà è al 40 per cento, tre volte superiore alla media nazionale. Quello di disoccupazione è 2,5 volte più elevato. Il 25 per cento dei giovani dai 16 ai 25 anni non studia e non lavora, contro il 13 per cento del resto della nazione.

 

Nonostante questo, la presidenza Macron ha tagliato la spesa sociale, per fronteggiare l’esplosione del debito pubblico senza togliere risorse alle classi già agiate o limitare la spesa militare, di recente, invece, raddoppiata. Inseguendo la destra di Marine Le Pen per cui «nelle banlieue investiamo troppo e inutilmente».

 

Non cambia il discorso sul piano simbolico: una parte dei francesi non ha mai considerato gli ex colonizzati davvero «ex». Dopo gli attentati di Parigi del 13 novembre 2015 la pressione sulla comunità musulmana è diventata enorme, come se l’intera comunità potesse essere colpevole. Inviti a dissociarsi dai terroristi, leggi contro il velo, campagne islamofobiche hanno determinato la percezione, da parte dei membri, di esclusione sociale. E voglia di rivalsa.

 

Infine, c’è il piano repressivo. Le violenze della polizia nelle banlieue purtroppo sono frequenti da sempre. Ma una legge fatta dal centrosinistra nel 2017 ha ampliato il campo di applicazione della “legittima difesa”, di fatto aumentando le volte in cui la polizia ha sparato. Risultato: fra il 2017 e 2022 sono morte 86 persone contro le 55 dei sei anni precedenti. Solo nel 2022, 13 omicidi per resistenza all’arresto. Oltre che nell’esasperazione delle cause, la novità delle rivolte sta nel significato politico.

 

A differenza della Francia del 2005, quando i rivoltosi erano isolati, opposti a una République compatta, in quella del 2023 lo scenario è cambiato: i principi che hanno animato le grandi mobilitazioni degli ultimi anni, i gilet gialli, le proteste per l’età pensionabile, i comitati popolari contro le violenze della polizia, hanno penetrato anche le banlieue. Accomunato soggetti con background differenti, alimentato la voglia di cambiamento radicale. Così, per la prima volta, la France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon, con il suo progetto di Unione Popolare, il “piano di emergenza” per redistribuire la ricchezza, la critica all’islamofobia e alla polizia, offre una sponda per ridisegnare il patto sociale. Cosa che, in senso opposto, fa anche l’estrema destra. Che è cresciuta e si presenta come il «partito dell’ordine» di fronte ai conflitti sociali. Al centro, con sempre meno consenso, Emmanuel Macron. Che flirta con il montante fascismo, invece di contrastarlo: un gioco pericoloso, come insegna la storia del Novecento.