Frenare l’escalation nucleare senza dimenticare interessi economici ed equilibri geopolitici. Il dialogo è aperto. E manda in soffitta le battaglie per i diritti umani nel nome di Mahsa Amini

Peccati, debiti, anni e nemici: secondo un detto persiano ogni persona ne ha molti di più di quello che pensa.

Per la Repubblica Islamica dell’Iran è sicuramente così. E quando il 16 settembre dell’anno scorso la 22enne Mahsa Amini venne arrestata e ammazzata di botte dai suoi aguzzini, i nemici non potevano che aumentare. Poi le rivolte interne, qualcuno che azzarda la parola rivoluzione, le esecuzioni sommarie, il coraggio delle donne che scendono per le strade e le piazze della capitale, ancora oggi, con i capelli sciolti, senza velo. Giovani e giovanissime che sfidano i divieti, facili prede della Gasht-e Ershad, la polizia morale con il compito di far rispettare il codice di condotta e di abbigliamento.

 

Ma il regime, come paventato, non crolla, anzi si rafforza, e il sostegno dei Paesi occidentali alla resistenza di queste donne svanisce, «adattandosi alla nuova realtà», per usare le parole dello scrittore indiano Salman Rushdie. Così si ricomincia a negoziare seriamente con il governo di Teheran.

 

Secondo il New York Times, infatti, Iran e Stati Uniti starebbero per chiudere un mini accordo sul nucleare. Cooperare con i nemici affinché non producano l’atomica, realpolitik che inevitabilmente prevale.

 

Quasi del tutto archiviate le possibilità di ripristinare il Jcpoa (Joint comprehensive plan of action), l’accordo del 2015 da cui, tre anni dopo, l’allora presidente americano Donald Trump è uscito unilateralmente, si procede sottotraccia. Prima con un viaggio a inizio maggio a Muscat, in Oman, del consigliere della Casa Bianca in Medio Oriente, Brett McGurk, e l’incontro con un pezzo da novanta: Ali Bagheri Kani, il negoziatore numero uno degli iraniani. Quindi, con una serie di missioni «di basso profilo» con l’obiettivo di accelerare i negoziati per un patto provvisorio con Teheran sul programma nucleare. «Un cessate il fuoco politico» tra le due superpotenze, lo avrebbero definito alcuni funzionari iraniani.

 

L’accordo – si legge su Axios, che per primo ha rivelato i contatti informali – prevede che l’Iran non arricchisca l’uranio più del 60% (al 90% di purezza si ottiene la bomba), che interrompa i raid contro i contractors americani in Siria e in Iraq e che non venda missili balistici a Mosca. Da parte sua Washington dovrebbe alleggerire le sanzioni, scongelare asset iraniani da utilizzare per scopi umanitari e non promuovere nuove azioni contro la repubblica islamica nelle organizzazioni internazionali.

 

Sul tavolo ci sarebbe anche il rilascio di prigionieri statunitensi in cambio del via libera di sette miliardi di dollari bloccati in Corea del Sud, probabilmente utilizzati nella compravendita di petrolio.

 

Del tutto inaspettata la sponda dell’ayatollah Ali Khamenei, di solito piuttosto duro quando c’è di mezzo la Casa Bianca e l’Occidente in generale. «Potrei sostenere un accordo con gli Stati Uniti se le infrastrutture nucleari (ndr: per scopi civili) rimanessero intatte», ha detto a metà giugno la guida suprema, aprendo anche a una cooperazione più produttiva con gli ispettori dell’Aiea, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica.

 

«Non vedo, però, una reale intenzione nel firmare un accordo definitivo in questo momento», spiega a L’Espresso la professoressa Eleonora Ardemagni, ricercatrice associata senior dell’Ispi, l’Istituto per gli studi di politica internazionale. «La mia sensazione è che tutti gli attori in campo stiano provando a guadagnare tempo. Da un lato gli Stati Uniti per sondare la reazione degli alleati regionali, ovvero Israele e monarchie del Golfo. Dall’altro, l’Iran che, approfittando della ripresa delle relazioni con l’Arabia Saudita, vuole dare una spinta all’economia e recuperare l’immagine di Paese stabile con il quale si può interloquire. Immagine che le rivolte dei mesi scorsi nel Paese hanno profondamente minato».

 

Considerazioni analoghe per Naysan Rafati, analista di Crisis group per l’Iran, organizzazione per la prevenzione dei conflitti: «I contatti informali tra Stati Uniti e Iran sembrano cercare di evitare, come minimo, un’ulteriore escalation. Ma è difficile valutare i progressi e le prospettive di successo».

 

Meglio per Gerusalemme, principale avversario di Teheran nella regione. Solo di recente il premier Benjamin Netanyahu ha rimarcato che Israele «farà tutto il necessario» per «opporsi al rilancio del Jcpoa», figuriamoci di un accordo meno formale e, dunque, potenzialmente meno vincolante. Che «non farà altro che spianare la strada all’Iran verso una bomba nucleare, fornendo decine di miliardi di dollari», ha precisato il primo ministro.

 

«Ma Israele si trova in una posizione di isolamento rispetto a un anno fa», sottolinea ancora Ardemagni, ricordando che in questa fase tutti gli attori della regione «studiano le mosse degli iraniani». In particolare Arabia Saudita ed Emirati Arabi, che «questa volta vorrebbero essere coinvolti qualora si dovesse chiudere un accordo».

 

Un campo minato per il presidente Joe Biden, tra velleità di appaltare la sicurezza regionale agli alleati e la necessità di concedere il meno possibile ai rivali. All’alba di una difficile campagna elettorale, il rischio è di seminare tanto e raccogliere zero.