Se non è legato all’apparato profondo dello Stato, che non è né di destra né di sinistra, nessun politico resiste. Se esce dal reticolo di filamenti dei funzionari inamovibili, che gestiscono le strutture pubbliche, è finito

Il Potere è una patata. Il copyright è di Roberto D’Agostino, senza nessun riferimento, una volta tanto, ad allusioni alla Vittorio Feltri. Sì, una patata, un tubero. Emerge appena dal terreno, quando non sta proprio sotto una sottile coltre di terra. Però sotto ha lunghissimi filamenti di radici. Ecco, quello è il radicamento del potere che si sviluppa non visto ma forte, ramificato, consolidato. Se non è legato a quel sistema, che non è né di destra né di sinistra, ma è semplicemente Potere, qualunque politico, pur sostenuto dagli strombazzamenti di giornali, siti e tv, non va da nessuna parte. È come se la patata fosse solo appoggiata sul terreno e non avesse le radici: basterebbe un calcetto per spostarla e farla rotolare.

 

Così quando un politico arriva al Potere, finché si muove tra le radici della patata, è tollerato, persino accettato. Ma, come esce da quel reticolo di filamenti, è finito. Si dice che comandino i poteri forti. Ma chi sono? Sono quelli che si ritrovano alle riunioni della Bilderberg o di Davos? La Spectre, scomodando la memoria di Ian Fleming, padre dell’agente 007? Macché. È la Patata (che a questo punto va scritta con P maiuscola) le cui radici avvolgono quell’esercito di funzionari inamovibili, che governano ministeri e strutture pubbliche, apparentemente in seconda fila, ma senza i quali è impossibile muovere foglia.

 

Sono sempre gli stessi, magari girano tra una direzione generale e un’altra, una corte, un consiglio, una commissione, una prefettura. Ma sono sempre lì. Una sorta di potere democristiano mai definitivamente accantonato che pervade lo Stato, lo fa lentamente funzionare, ragiona, ispeziona, pesa pro e contro, ha relazioni in Italia e nel mondo. Ma la Patata, come succede per i tuberi di questo tipo, produce altre Patate: così ci sono quelle più aperte al riformismo, quelle più conservatrici, quelle generazionali. Chi vuole governare deve attaccarsi almeno a uno di questi filamenti. E sperare che sia il più forte.

 

Matteo Renzi a Palazzo Chigi ha resistito finché ha dialogato con la Patata. Poi è caduto. Giuseppe Conte, dopo essere sopravvissuto agli abbracci della Lega e del Pd e aver gestito la pandemia, un’opera ciclopica, ha dovuto mollare appena ha creduto, magari malconsigliato, di essere il John Kennedy italiano. In sostanza quando si è allargato troppo. Persino Mario Draghi, nume tutelare del famoso Deep State, ha cominciato a vacillare quando si è autocandidato alla presidenza della Repubblica dando segnali di onnipotenza. Qualcuno ha reciso i filamenti della Patata. E la politica, ossequiosa, ha obbedito.

 

Anche Giorgia Meloni deve fare i conti con la Patata considerando che i suoi rapporti con le radici non sono un granché. Viene da anni di opposizione, di urla e proclami. Ha provato ad afferrare qualche radice filamentosa, usando uomini di provata esperienza, poi però ha ceduto sulle sue debolezze: il clan, i rapporti familistici, lo sbattere i pugni sul tavolo, la nostalgia autarchica, il pensiero di un’Italia che da sola può andare contro il mondo intero. Con i casi Santanchè, La Russa, Delmastro, il governo può ballare.

 

Ma i problemi veri, su cui la Patata non transige, sono quelli del Pnrr, della riforma della giustizia, dell’autonomia differenziata. Lì si vedrà quanto Meloni sia aggrappata ai filamenti. Dopo le Europee ci sarà la prova delle prove. Con importanti fette di debito pubblico in scadenza, potrebbe ripartire la tempesta finanziaria. Perché è in casi del genere che senza radici ramificate e profonde la patata (con la p minuscola) finisce per rotolare.