Il piano 100 Megabit nelle aree scoperte è realtà solo a metà. E anche il governo ha ammesso i rallentamenti per il piano Gigabit, inchiodato all’1,8 contro una stima del 15 per cento, e per quello della copertura della rete mobile

Il sogno di portare internet super veloce a tutte le famiglie e aziende italiane è rimasto tale. Tutti i piani finanziati dagli ultimi governi sono in grave ritardo, come sta emergendo con chiarezza dagli stessi dati governativi pubblicati nelle scorse settimane. Il problema principale, come riflettono diversi esperti di settore, non è tanto il ritardo in sé, bensì il fatto che non si intraveda alcuna soluzione all’orizzonte. Non si sa quando quegli obiettivi saranno raggiunti. E, aspetto più critico, non si coglie un piano per risollevare un settore, quello delle telecomunicazioni, la cui crisi profonda in Italia si sta consumando da anni nell’indifferenza della politica. Eppure dovrebbe interessare a tutti: per salvare centinaia di migliaia di posti di lavoro; per tutelare l’innovazione delle nostre infrastrutture digitali (fibra ottica, 5G), dalla quale dipende buona parte della competitività e quindi del futuro economico del Paese.

 

Gli esperti sono preoccupati. E lo sono le associazioni di settore, come Asstel (che riunisce i principali operatori telefonici). In questo scenario, i ritardi della copertura banda larga sono un sintomo di un problema più profondo, che mette a rischio l’innovazione del Paese.

 

Prendiamo il vecchio piano banda larga “aree bianche”, con il quale lo Stato finanzia la copertura di zone dimenticate dagli operatori. Avrebbe dovuto portare almeno 100 Megabit a tutti gli italiani entro il 2020. Ad aprile 2023 era fermo al 47%. «Ora l’obiettivo finale è spostato al 2024, ma sarà molto difficile raggiungerlo dato l’attuale avanzamento», spiega Cristoforo Morandini, uno dei più noti esperti di tlc in Italia (un passato nella multinazionale della consulenza EY e come manager di prima linea in Tim).

 

Alessio Butti (Fratelli d’Italia), quando era deputato all’opposizione se la prendeva con i ritardi di Open Fiber, operatore designato (dal bando governativo). Ora che è al governo, come sottosegretario all’Innovazione, i fronti delle sue preoccupazioni sono solo aumentati. A giugno ha riconosciuto che sono in ritardo anche due nuovi piani miliardari legati ai fondi del Pnrr europeo: il piano Gigabit (una velocità almeno dieci volte superiore ai 100 Megabit e considerata a prova di futuro) e quello del 5G (la quinta generazione di rete mobile). Per coprire zone nelle quali gli operatori hanno detto di non volere investire con proprie risorse.

 

I dati del governo dicono che il piano Gigabit è ora all’1,8 per cento, da cronoprogramma avrebbe dovuto toccare il 15% a giugno, per coprire 7 milioni di numeri civici con quella velocità entro il 2026. Ferma la copertura del piano 5G e quella per dare Internet super veloce a tutte le strutture sanitarie (sempre entro il 2026 come da impegni con l’Europa); va bene solo l’analogo piano per le scuole.

 

Butti (al Sole24Ore) assicura che i ritardi saranno recuperati più in là e li imputa a scelte di precedenti governi, ma anche all’inefficienza delle aziende di settore, su cui promette di esercitare un controllo più stretto. Segnala però altri due problemi che per molti esperti sono tra le cause principali del problema: una burocrazia farraginosa che rallenta i lavori e la carenza di manodopera specializzata legata al sistema della formazione professionale.

 

In teoria, per legge, gli operatori possono posare la fibra ottica e mettere antenne 5G con autorizzazioni iper semplificate; in pratica, è incubo di tanti permessi da chiedere e lunghe attese. «Sui permessi serve un vero cambio di marcia; necessario anche ultimare l’iter normativo per portare i limiti elettromagnetici a livelli più vicini a quelli europei. Quelli italiani, super ridotti, ora sono un forte ostacolo al 5G», spiega Stefano da Empoli, presidente di I-Com.

 

L’incognita è se questo governo avrà la forza, più dei precedenti, di fare rispettare le norme sui permessi e di superare i populismi che hanno finora tenuto bassi i limiti elettromagnetici. Più in generale, le aziende di settore sono da anni in attesa di una politica industriale che le aiuti a risollevarsi. «I flussi di cassa​ degli operatori sono passati dai 10,5 miliardi del 2010 a un valore di poco superiore al miliardo del 2021 e hanno registrato lo scorso anno, per la prima volta, un valore negativo di circa 4 miliardi», notano da Asstel. Le tlc, al contrario delle aziende di energia, hanno solo subito conseguenze negative dal boom dell’inflazione. In queste condizioni, sembra difficile che possano rispettare gli impegni di copertura presi con il governo rispetto ai quali sono stati disegnati i piani basati su fondi pubblici.

 

Al momento, la sola speranza – come nota Morandini – sembra quella di «risanare la situazione finanziaria degli operatori, tramite, in primis, la separazione della rete dai servizi, come del resto già avvenendo in Italia. Svolta che favorirebbe anche il consolidamento del mercato». In Italia, secondo vari analisti (come Andrea Rangone, ordinario del Politecnico di Milano), ci sono troppi operatori e quindi i margini di profitto sui servizi sono risicati.

 

Serviranno trasformazioni strutturali del settore per salvarlo. E, con quello, gli obiettivi di innovazione del Paese. Una partita su cui il ruolo delle istituzioni, europee e italiane, è centrale; ma ancora tutto da costruire, mentre il tempo a disposizione per farlo diventa sempre più esiguo.