Dopo quarant’anni nel calcio, prima al Milan e ora al Monza, l’avvocato spiega perché la legge ordinaria e le norme del calcio sono destinate al conflitto. E ricorda il caso dello scudetto tolto al Torino nel 1927

Ha superato i quarant’anni di attività nel mondo del calcio. È una passione ereditata dalla tradizione familiare che risale ai primi del Novecento. Leandro Cantamessa Arpinati, avvocato del foro di Milano ed esperto di diritto sportivo con un passaggio come docente all’università Statale, dopo oltre un trentennio di Milan ha seguito Adriano Galliani nell’avventura al Monza con un posto in cda e una regia giuridica che va dalle riunioni di Lega ai contratti dei calciatori.

 

Il suo punto di vista sulla possibilità di armonizzare giustizia sportiva e giustizia ordinaria è netto. «Escludo la possibilità di renderle compatibili», dice a L’Espresso. «Il conflitto non solo esiste ma è inevitabile perché i parametri sono diversi. La giustizia sportiva deve avere due caratteristiche, la celerità e l’afflittività, che i tribunali ordinari non riconoscono come obbligatori. Al contrario, istituti del codice penale come la sospensione condizionale o gli arresti domiciliari significano afflittività ridotta, se non mancante. Questo per una società sportiva è impossibile. La sanzione deve fare lacrimare. Stabilito questo, e fatta la tara a qualche errore, la giustizia sportiva non funziona male. Le vicende recenti, soprattutto quelle legate alla Juventus, hanno messo in evidenza qualche lungaggine di troppo nei gradi di giudizio ma questo dipende dall’intervento dei giudici ordinari».

[[ge:rep-locali:espresso:402765448]]

Per la cronaca, il riferimento è al processo Prisma della Procura di Torino che ha rimesso sul tavolo del procuratore federale Giuseppe Chinè una vicenda già chiusa con un’assoluzione, quella delle plusvalenze, più il filone nuovo degli stipendi.

 

Nel primo caso il processo sportivo si è chiuso con una penalizzazione di dieci punti al club bianconero. Nel secondo la partita è finita con un patteggiamento che ha salvato il sistema.

 

«Nel processo bis della Figc», continua Cantamessa, «sono stati inseriti i fatti nuovi emersi nel corso di Prisma. Un fattore di complicazione in più è dato dall’inchiesta dell’Uefa, la federazione europea che può valutare e sanzionare gli stessi fatti giudicati dalla Figc oppure considerare elementi nuovi appresi durante la sua fase istruttoria. Insomma l’Uefa ha libertà di giudizio e in modo autonomo può inibire alla Juve l’accesso alle coppe durante le prossime stagioni oppure bloccare le attività di calciomercato, soprattutto per il filone sugli stipendi che è il più grave dal punto di vista sportivo. A partire dalle sentenze dei tribunali calcistici si sarebbero potuti innescare una serie di contenziosi, se il club di Exor non avesse scelto il patteggiamento. I ricorsi della Juve contro Figc e Uefa presso i tribunali amministrativi avrebbero senz’altro compromesso il principio della celerità. La mia idea è che ci sono troppi gradi di giudizio. Quando mio nonno decise di togliere lo scudetto al Torino nel 1927 ci furono soltanto due fasi del processo».

 

Cantamessa si riferisce a uno dei maggiori scandali della storia del calcio italiano. Nel 1927 Leandro Arpinati, podestà di Bologna, vicesegretario del partito fascista e presidente della Figc, revocò lo scudetto vinto dal Torino, di proprietà dell’industriale dei liquori Enrico Marone Cinzano.

 

Alla base della decisione, presa in diciotto giorni fra il primo e il secondo grado di giudizio dal 3 al 21 novembre 1927, ci fu la combine nel derby torinese della stagione 1926-27. Nel processo fu coinvolto il difensore dei bianconeri e della nazionale Luigi Allemandi, autore della corruzione con una bustarella da 35 mila lire.

 

Allemandi, che si dichiarò sempre innocente, venne radiato ma nel suo caso la dittatura mussoliniana si mostrò alquanto clemente perché Allemandi fu amnistiato nell’aprile del 1928. Ceduto all’Ambrosiana Inter, partecipò alla conquista del primo titolo mondiale con l’Italia di Vittorio Pozzo nel 1934 e concluse la carriera da capitano degli azzurri.

 

Possono sembrare vicende lontanissime ma Urbano Cairo, proprietario del Torino, otto anni fa ha chiesto la restituzione del titolo e così ha fatto il Bologna, secondo classificato nel torneo 1926-27. Gabriele Gravina, numero uno della Figc, ha dovuto nominare una commissione ad hoc per giudicare il caso. Lo scudetto del Ventennio è rimasto senza padrone ma in quanto a celerità si è visto di meglio.