Gli esordi con i CSI, la storica band di Giovanni Lindo Ferretti. Le collaborazioni e gli incontri con musicisti, con scienziate come Margherita Hack, scrittori come Luis Sepúlveda e poeti come Franco Arminio. La vocalist porta in tournée tre spettacoli, tra suoni e parole

È abituata a cambiare rotta Ginevra Di Marco. Cantante e narratrice di storie, un tempo voce limpida e struggente dei Csi di Giovanni Lindo Ferretti, è pronta ad esplorare terre nuove, incontrare cantautori come Luigi Tenco, scienziati come Margherita Hack, scrittori come Luis Sepúlveda e poeti come Franco Arminio, con cui condivide la passione per le parole e le aree interne della Penisola, preziose e dimenticate. Con Arminio in queste settimane porta in giro per l’Italia lo spettacolo “È stato un tempo il mondo”, accompagnati da Francesco Magnelli e Andrea Salvadori. E ancora, di recente la vocalist è salita sul palco di Villa Bardini, sul belvedere affacciato sulla sua Firenze, per il Festival La Città dei lettori, che nelle prossime settimane continuerà ad attraversare tutta la Toscana. Hanno celebrato Rosa Balistreri, cantastorie siciliana e figura femminile emblematica del Novecento, insieme alla cantante Gaia Nanni e alla scrittrice Stefania Aphel Barzini, autrice del libro “La mia casa è un’isola” (Giunti). Poi è partita la tournée dello spettacolo “Donne guerriere”. Monologhi, dialoghi e canzoni per celebrare Balistreri e Caterina Bueno, esponenti fondamentali della cultura popolare italiana, impegnate in prima linea nella difesa dei diritti delle donne.

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Ginevra Di Marco, lo spettacolo “Donne guerriere” rende omaggio a due donne del passato, Caterina Bueno e Rosa Balistreri, esponenti fondamentali della cultura popolare italiana. Cosa l’ha colpita della loro storia?
«È uno spettacolo che nasce da un'idea di Francesco Magnelli, che condivido sul palco con lui, con Andrea Salvadori e l’attrice Gaia Nanni. Raccontiamo la storia di Rosa Balistreri e Caterina Bueno, due figure fondamentali della scena folk italiana degli anni Sessanta, che in qualche modo hanno cambiato il loro destino».

 

Perché erano due donne guerriere?
«Hanno ribaltato un destino prefissato da altri, si sono imposte in una cultura assolutamente dominata dagli uomini, sono un bell’esempio da studiare. Hanno fatto della loro arte un grande atto politico, perché la politica si fa con le scelte più che con le parole. Erano due persone che venivano da due realtà completamente diverse: Caterina altolocata, figlia di artisti stranieri, trapiantata in Toscana, a un certo punto ha sentito stretto quel mondo così ben strutturato e ha voluto mescolarsi con i contadini e gli operai, è andata nelle campagne toscane a conoscere i canti che senza il suo apporto sarebbero stati dimenticati. Invece Rosa veniva dalla Sicilia più nera, più povera, più disastrata. Ha avuto una vita piena di dolori indicibili, di grandissime sofferenze. E invece è riuscita a emergere, a farsi rispettare da tutta l'intellighenzia culturale dell'epoca. Due bellissime figure insomma, che raccontiamo con grande passione».

 

Oggi c’è ancora bisogno di donne guerriere?
«Le donne guerriere sono tutte coloro che senza distinzione di ceto età cultura si oppongono a un destino prefissato da altri, che credono nel proprio sogno e lottano per realizzarlo. Tutte coloro che riescono a dire no al dominio maschile, nel nostro tempo ancora molto forte».

 

Si ritiene una femminista militante?
«Non uso molto la parola femminismo perché secondo me si è molto corrotta nel tempo. Sicuramente è un concetto importante, bisogna credere nelle lotte che sono state fatte da donne da tante donne prima di noi. Al tempo stesso è un concetto che si è molto deteriorato, ci siamo riempiti la bocca del concetto di femminismo. Credo nel valore dell'insieme, dell'uomo e della donna, non penso a un genere contrapposto a un altro. Tuttavia, le lotte ancora da portare avanti sono tante: il mondo è cambiato e per certi versi è ancora sempre lo stesso. E allora bisogna continuamente riaffermare anche tanti diritti che sembrano spesso accolti, però non si possono mai dare per scontati».

 

In passato ha collaborato con l’astrofisica Margherita Hack, anche lei fiorentina, scomparsa proprio dieci anni fa. Dal vostro sodalizio è nato uno spettacolo dal vivo, “L’anima della terra vista dalle stelle”, che lei ha portato in decine di teatri italiani. Anche Margherita Hack era una donna guerriera?
«Assolutamente sì. Margherita è l'emblema massimo della donna guerriera, indomita e indomabile, profondamente libera. Ha sempre detto quello che pensava, senza peli sulla lingua. È stata una grande fortuna avere a che fare con lei per quattro anni. E poi era una donna anche molto scherzosa, leggera, divertente, spiritosa. Sapeva fare squadra, abitava a Trieste dal 1951, era diventata la direttrice dell'osservatorio, ma come me era fiorentina e  non aveva perso neanche un'inflessione del toscano più verace e più popolare. Era autentica, il suo grande insegnamento è stato proprio questo, mostrarsi per quello che si è, senza costruzioni».

 

Le interessava la musica?
«No, il mondo della musica non le interessava molto. La conquistammo, a lei piaceva molto l'idea di poter parlare del Novecento attraverso le tematiche delle canzoni popolari che raccontavano la figura della donna, la politica corrotta, la fede. Si raccontava il Novecento per arrivare a raccontare l'oggi. Lei rimase ammaliata dall'idea di poter dire la sua. Sulla musica però c’è un aneddoto buffo: noi volevamo finire la nostra scaletta con una canzone di Pgr, Per Grazia Ricevuta, che è stata la formazione dopo i Csi. Un pezzo strepitoso che si chiama “Montesole”, uno degli ultimi testi che ha scritto Giovanni Ferretti sul senso della vita, un testo di larghissimo spettro e sensibilità. Volevamo chiudere la scaletta dedicando a lei questa canzone, ma un giorno Margherita si presenta da noi e dice: “Ragazzi, scusate, bisogna che vi dica una cosa”. “Dicci Margherita”. “Si può togliere quel pezzo in fondo? È una lagna incredibile”. Si annoiava a morte con “Montesole”, una canzone profonda, poetica, che noi le dedicavamo con tutto il cuore. Insomma, non ci fu niente da fare e propose di cantare “Il grillo e la formicuzza”, una ninna nanna terrificante toscana di cui lei probabilmente aveva il ricordo da quando era piccola. E così ci siamo dovuti sorbire per quattro anni “Il grillo e la formicuzza” (ride)».

 

Nella sua carriera ha reso omaggio ad artisti molto diversi tra loro: Luigi Tenco, Franco Battiato, Mercedes Sosa, la grande cantante argentina simbolo della lotta contro la dittatura. Qual è il filo rosso che li unisce?
«Sono sempre alla ricerca spasmodica di buoni maestri, credo che ne abbiamo un grande bisogno. Forse dipende dal fatto di essere nata e cresciuta nell'ambito del Consorzio Suonatori Indipendenti, di avere avuto a che fare con Giovanni Ferretti, che per me è stato un grande maestro. Nel tempo, quindi, ho cercato di collaborare con grandi figure che potessero illuminare la mia strada e rimanermi accanto. Così è arrivato il disco omaggio a Mercedes Sosa e il rapporto con Luis Sepúlveda, una figura che ho amato tantissimo e che purtroppo non ho potuto frequentare quanto avrei voluto».

 

A proposito di donne, lei è stata la voce femminile del Consorzio Suonatori Indipendenti, il gruppo fondato da Giovanni Lindo Ferretti sulle ceneri dei Cccp. Avete inciso album che hanno segnato un’epoca come “Ko de mondo”, “In quiete”, “Tabula rasa elettrificata”, con cui arrivaste primi in classifica nel 1997. Cosa resta dentro di lei di quell’esperienza?
«Il fatto di arrivare primi in classifica fu un evento straordinario, che nessuno si aspettava. Un momento fantastico, sembrava davvero che tutto potesse cambiare, finalmente un gruppo indipendente primo in classifica. Il mio rapporto con Giovanni è stato molto forte, molto stretto, una grande intesa istintiva, di pancia. Sul palco ci siamo sempre detti poco e abbiamo sentito tanto. Facemmo tantissimi concerti, arrivavano migliaia e migliaia di persone. E piano piano iniziavamo a soffrire».

 

In che senso?
«Non eravamo preparati a questa grande esposizione. Iniziammo a suonare nei palazzetti dello sport, davanti a migliaia di persone, perdendo quella relazione intima che ritrovavamo nei teatri in cui eravamo nati. Quindi Ferretti cominciò a suonare e cantare con il crine di cavallo sugli occhi per non guardare tutta la folla che aveva davanti, cominciarono le prime grandi sofferenze che portarono allo scioglimento del gruppo».

 

Cosa resta di quell’esperienza nella scena musicale di oggi?
«All’epoca dei Csi la musica era un linguaggio necessario per dire delle cose, avevamo solo quella di possibilità, non c'era un disegno delle case discografiche. Quindi facciamo parte di un mondo che forse non esiste più. Oggi vedo molta costruzione, tanti artisti interessanti ma in giro non vedo arte pura. Tra i giovani c’è un artista che mi piace molto, avendo dei figli mi arrivano in casa cose che non ascolterei mai. Si chiama Tha Supreme, adesso Thasup, lo trovo molto originale e ha divelto completamente le strutture trap. Ho ascoltato molto volentieri i suoi due dischi e ci ho trovato una libertà di approccio vera, sincera, anche se lontana anni luce dalla nostra visione. In lui vedo quel fuoco che ha chi cerca di costruire qualcosa di personale».