I due film Palma d’oro a Cannes. “The square” e “Triangle of sadness”, ironici atti d’accusa contro l’élite. E la nuova pellicola ambientata su un aereo in classe economica. Parla Il regista svedese: «Sorrentino mi ha sempre ispirato»

«Se vuole sapere il finale non ho problemi con gli spoiler», scherza Ruben Östlund, t-shirt nera e sguardo aperto, dalla sua casa sull’isola di Maiorca, prima di svelare dettagli del suo prossimo film, che comincerà a girare in autunno. “The entertainment system is down”, questo il titolo, è ambientato in un aereo durante un volo a lunga percorrenza, in cui va in tilt il sistema che consente di utilizzare i dispositivi digitali. I passeggeri si ritrovano spaesati, stressati, inquieti per questo improvviso black out. Il protagonista della scena clou è un bambino che chiede al fratello maggiore se può avere l’iPad. Hanno un solo tablet con la batteria e la madre gli risponde di aspettare, accettare di annoiarsi, restare fermo. Una scena di dieci minuti sull’orlo di una crisi di nervi, distante dalle sequenze d’azione ormai celebri delle due commedie nere del regista svedese, entrambe Palma d’oro a Cannes: in “The square” (2017) lo scimmione spaventa le persone sedute a cena in un salone; in “Triangle of sadness” (2022) i passeggeri cominciano a vomitare nel transatlantico travolto dalla tempesta. Atti d’accusa ironici, lucidi e surreali contro il mondo dorato dei ricchi. In questi giorni Östlund è a Bologna per la Masterclass annuale (fino al 7 luglio) in regia organizzata da IFA – International Filmmaking Academy di Bologna con 20 studenti e studentesse selezionati dalle scuole di cinema di tutto il mondo assieme al regista svedese. Venti set verranno allestiti in vari luoghi della città e verranno realizzati altrettanti cortometraggi, uno per partecipante.

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Ruben Östlund, da dove viene l’idea per il suo nuovo film?
«Nasce da una ricerca psicologica in cui mi sono imbattuto, condotta su un gruppo di persone a cui è stato chiesto di restare in una stanza senza fare nulla per un tempo breve, da sei ai quindici minuti. I partecipanti hanno vissuto questa esperienza come una tortura. Gli scienziati hanno aggiunto una funzione: chi voleva poteva premere un bottone per procurarsi una scarica elettrica, non dannosa ma molto dolorosa. Due terzi degli uomini e un terzo delle donne hanno scelto di spingere quel bottone. Odiamo stare soli con i nostri pensieri».

 

Dopo aver partecipato all’ultima edizione del Festival di Cannes come presidente della giuria, ora guiderà venti studenti di cinema provenienti da tutto il mondo in occasione della Masterclass annuale organizzata dalla International Filmmaking Academy di Bologna. E il 3 luglio presenterà il film “The square” in piazza Maggiore, in occasione del festival Il Cinema Ritrovato. Qual è la parte più difficile del mestiere di insegnante?
«Tengo a sottolineare che insegno anche all’Università di Göteborg, in Svezia. La parte più difficile? Le persone tendono a proteggere le proprie idee, non vogliono aprirsi, spiegare cosa stanno facendo. Temono che, quando lo faranno, la magia scomparirà. Io invece cerco di convincerli del contrario: raccontando la propria idea potranno conoscere meglio sé stessi. L’ho fatto anche io come metodo: quando riesco a spiegare la mia storia a un’altra persona - un vicino di casa, un parente, un amico – scatta qualcosa e riesco a scriverla. Ecco, vorrei che gli studenti seguissero lo stesso metodo».

 

Tornano in mente le sue parole in occasione dell’ultimo Festival di Cannes, rivolte ai componenti della giuria da lei presieduta: “Non voglio che nessuno di noi si senta obbligato a dire cose intelligenti, che le discussioni diventino una gara a chi è più profondo e intellettuale”.
«Ho l’impressione che talvolta nelle giurie alcuni componenti vogliano superare in astuzia gli altri, dire per forza qualcosa di intelligente, non quello che realmente pensano. Mi accade lo stesso quando quando faccio l’insegnante. Voglio invece che le persone non sentano il prestigio del proprio ruolo e si permettano di essere cattive. Anche con gli attori, quando li dirigo, mi sforzo di allentare la pressione: non devono temere di fare qualcosa di sbagliato».

 

Cosa pensa del cinema italiano? Ha qualche preferenza tra Sorrentino, Garrone, Bellocchio, Moretti?
«Probabilmente Nanni Moretti è della stessa generazione di mia madre, una generazione impegnata dal punto di vista politico, che ammiro molto. Con Moretti guardo alla sinistra degli anni Sessanta, esattamente quella che ha vissuto mia madre, trovo una comune visione della società, della sinistra, del marxismo. A differenza del regista de “Il sol dell’avvenire”, tuttavia, lei non è ancora riuscita a dire addio all’Unione Sovietica, credo sia la maggiore differenza con la sinistra che Moretti tratteggia nel suo film. Quanto agli altri registi italiani, per me Sorrentino è stato molto importante: mi ha profondamente ispirato quando ho cominciato a girare “The square” e ancora mi ispira. Credo che insieme a Leos Carax sia il più potente regista contemporaneo dal punto di vista visivo».

 

Quale film apprezza di più, “La grande bellezza”?
«Certo, ma ho amato anche il suo ultimo film su Napoli, “È stata la mano di Dio”. Incredibile come riesca a mescolare la sua vita privata con eventi storici».

 

Quanto alla politica, la Svezia così come altri Paesi in Europa tra cui l’Italia, ha visto un grande avanzamento dei partiti di estrema destra, malgrado la tradizione della socialdemocrazia scandinava. Da cosa dipende?
«Difficile dirlo, semplicemente penso ci siano dei cicli. La spiegazione più ovvia è che i lavoratori non si sentono più riconosciuti dalla sinistra, che ha cominciato a dare priorità alle politiche identitarie trascurando le classi sociali».

 

Come dimostra il suo film “Triangle of sadness”, lei sembra molto attratto dal circo dei ricchi. Li trova così interessanti?
«Sto dicendo addio ai ricchi! Il mio prossimo film sarà ambientato in classe economica su un volo a lunga percorrenza. Scherzi a parte, mi sono chiesto anche io cosa sia così attraente nel mondo dei ricchi. Tutti noi siamo attratti da lusso o dalle cose alle quali non abbiamo accesso. Sono cresciuto sull’isola di Styrsö, vicino a Göteborg, una parte dell’isola era frequentata dai villeggianti ricchi, nell’altra vivevano i pescatori. Era davvero divisa in due. Dalla mia casa – mia madre era un’insegnante di scuola primaria – spostandoti di 500 metri arrivavi alle più enormi ville dell’intera area di Göteborg, dove i ricchi vivevano nelle loro case sull’oceano».

 

C’è un altro aspetto ricorrente nei suoi film. I personaggi maschili sono fragili, contraddittori: penso a Christian, il gallerista di “The square”, o Thomas in “Forza maggiore”. Sembra quasi che lei voglia punirli per questa debolezza.
«Mi piace spingere personaggi normali in un luogo in cui falliscono come esseri umani, credo che il fallimento sia molto più interessante del successo. I miei personaggi naufragano sempre, non ho eroi e nessuno alla fine del film conserva la propria dignità. Non riesco a pensare a niente di più noioso di un personaggio che fa sempre la cosa giusta».

 

Ancora a proposito di uomini, paradossalmente in Svezia e negli altri Paesi nordici si registrano tassi molto alti di violenza sulle donne. Ancora più allarmanti che nei Paesi mediterranei, tra cui l’Italia.
«Nei Paesi scandinavi non ci è permesso parlare nello stesso modo in cui mi sento di fare, per esempio, in Spagna dove mi trovo ora, in Francia o in Italia. Tutto questo determina una pressione enorme, come una caldaia che rischia di scoppiare. Inoltre, credo che in Svezia siamo diventati troppo individualisti. Sono nato negli anni Settanta, sono cresciuto in una società socialdemocratica, l’unica cosa che guardavamo in tv era “Beverly Hills”. Insomma un dominio totale della cultura anglosassone e americana. E ora se ne vede l’effetto: siamo stati plasmati dall’industria dell’intrattenimento».