Da anni Cologno Monzese sta lavorando al polo europeo per competere con le multinazionali americane e digitali. La scomparsa del fondatore Silvio Berlusconi, però, rende più perigliosa questa trasformazione. Il ruolo di Vivendi. E i numeri del gruppo. Cosa c’è da sapere

Mediaset ha vissuto per anni al di sopra di molte cose e probabilmente del proprio valore o comunque in un mercato anomalo per il conflitto di interessi del fondatore Silvio Berlusconi. E prima ancora che il conflitto di interessi si manifestasse con il salvifico ingresso in politica del fondatore Silvio Berlusconi, Mediaset ha beneficiato di una tutela politica che si riassume con la proficua relazione tra lo stesso Berlusconi e i socialisti di Bettino Craxi.

La morte di Berlusconi e le cupe sorti di Forza Italia introducono la cassaforte Fininvest e la variegata famiglia in un ambiente inedito, non protetto, né migliore, né peggiore: diverso. La Borsa l’ha certificato con la sua reazione, la frenesia (speculazione) attorno ai titoli di Mondadori e di Mediaset in Italia, di ProsiebenSat in Germania. Il classico preludio a grandi manovre e grandi riassetti. In ogni premessa e in ogni ipotesi ci sono la famiglia, la dinastia, i cinque eredi di due matrimoni. La “roba” di Silvio è attribuita (non distribuita) a Marina con Mondadori e Pier Silvio con Mediaset, i figli di Carla Elvira Dall’Oglio. Per Barbara, Eleonora e il più giovane Luigi, i figli di Veronica Lario, soltanto posti in piedi o assai defilati.

 

La vendita di Mediaset dipende da infiniti fattori e svariati equilibri, ma la famiglia, la dinastia, i cinque eredi di due matrimoni sono il fattore principale. Non Forza Italia. Non le alleanze di governo. Non i patti con Giorgia Meloni. Se la famiglia è compatta, la “roba” può essere difesa. Se la famiglia è litigiosa, la “roba” può essere, anzi deve essere ceduta. Questa è la volontà del padre Silvio.

Oggi la “roba” controllata da Fininvest è principalmente il cantiere europeo di MediaForEurope con sede legale in Olanda, cioè sempre Mediaset, che include la versione spagnola di Mediaset España, la cospicua partecipazione (a maggio salita a 28,8 per cento) di ProsiebenSat e le altre società del gruppo. Ancora lividi per la mazzata con la televisione a pagamento, i dirigenti di Cologno Monzese (e di Amsterdam, per la precisione) sono concentrati sul modello continentale di televisione generalista e perlopiù gratuita, una multinazionale integrata capace di rivaleggiare con gli americani e i produttori digitali. L’operazione è suggestiva e certamente necessaria per non affogare nelle secche italiane, però al momento è insapore e incolore. Invece i bilanci sono perentori. MediaForEurope / Mediaset non è in una fase espansiva, semmai stagnante: i ricavi totali sono calati da 2,914 miliardi a 2,801 e l’utile netto da 374 milioni a 216.

Con il divieto di approdo in Francia e nessun appiglio in Gran Bretagna, Mediaset ha riversato centinaia di milioni di euro in Germania con ProsiebenSat che, «per la recessione macroeconomia nella regione tedesca», ha registrato un fatturato di 4,163 miliardi di euro (-332 milioni), un utile netto di 301 milioni (-64 milioni) e soprattutto vale scarsi 2 miliardi in Borsa. Gira il palinsesto e rigira l’Europa, il bottino di Mediaset è il solito capolavoro di Publitalia ’80, la concessionaria pubblicitaria che ha drenato 1,946 miliardi di euro lordi che sono 1,659 miliardi netti con un calo medio di un paio di punti. Per inserire la cifra in una dimensione reale vanno citate le stime di Confindustria. Il settore televisivo, secondo lo studio firmato Nielsen, ha strappato circa 3,5 miliardi di euro su 8,9 complessivi e di questi oltre il 50 per cento è finito a Mediaset che non arriva al 50 per cento di ascolti.

Le toppe di Publitalia ’80 e i buchi nei regolamenti, però, non bastano. La tendenza è ormai consolidata. Le televisioni perdono denaro e spettatori, la competizione è su livelli globali. Il patto di affari e di politica tra Marina Berlusconi e Giorgia Meloni, le spoglie di Forza Italia consegnate a Fratelli d’Italia dopo che Matteo Salvini se l’è perse in tasca, non può incidere su dinamiche mondiali. Chi lo pensa e lo scrive è ingenuo oppure in malafede.

Il patto di affari e di politica tra Marina Berlusconi e Giorgia Meloni può rendere più agevole la gestazione famigliare e industriale. Questo può fare. Meloni può accompagnare Marina, Pier Silvio e fratelli in una fase nuova calmierando i rischi che ciò comporta.

Alla primogenita Marina, a prescindere dai testamenti, spetta il ruolo di portavoce presso il governo (anche con le voci di Fedele Confalonieri e di Gianni Letta). I buoni risultati della “sua” casa editrice Mondadori - entrate a 903 milioni, un picco atteso da tre lustri - le conferiscono l’autorità per occuparsi del resto. Il 30 per cento di banca Mediolanum, che capitalizza più di 6 miliardi di euro, è la dote più ricca. MediaForEurope / Mediaset soffre, ma non è un’azienda scalabile. Il trasloco in Olanda ha blindato la proprietà. Un intervento obbligatorio dopo la traumatica esperienza con il finanziere bretone Vincent Bolloré, non a caso chiamato “requin”. In un periodo di fragilità politica e fisica del vecchio amico-nemico Silvio, fra l’autunno e l’inverno del 2016, lo “squalo” di Vivendi ha strappato un contratto di interscambio azionario e aggredito Mediaset in Borsa sino a sfiorare il fatidico 30 per cento (e fu fermato e respinto dal governo italiano). La battaglia giudiziaria si è risolta due anni fa con un accordo di pace facilitato dal fondatore Berlusconi. Vivendi ha cinque anni, e ne mancano tre, per azzerare la quota affidata alla fiduciaria Simon (oggi è del 18,5 per cento) e può vendere a qualsiasi prezzo il residuo. Marina e Pier Silvio diffidano ancora di Vincent. Silvio lo accusò di avergli «mancato di rispetto», lo squalo replicò che non sarebbe capitato «mai più». E qui c’entra il governo Meloni.

I francesi di Vivendi, da azionisti di rifermento, sono rimasti incagliati in Telecom con una minusvalenza spaventosa e fanno ostruzionismo al progetto di rete unica, non più differibile per due motivi: dotare l’Italia di una infrastruttura digitale in fibra, contenere il debito di 21 miliardi e la massa di esuberi. Vivendi e il governo devono ammannire un negoziato efficace in nome e per conto del «sistema Italia».

In questo contesto Bolloré e i suoi emissari possono trattare da una posizione più ampia riversando sul tavolo Mediaset e Telecom. È legittimo che Marina e Pier Silvio abbiano una cattiva predisposizione nei confronti di Bolloré, che a ogni modo ha ritardato il programma europeo di Mediaset, ma è pur vero che la televisione generalista è immersa in un mercato in declino. Se la famiglia avesse bisogno di un acquirente non potrebbe rivolgersi a un fondo estero che pretende margini di guadagno semplici e duraturi. Però potrebbe consultare Bolloré, che è già dentro Mediaset e non ha nascosto mai le sue mire.

In ultimo e anche in cima ci sono la famiglia, la dinastia, i cinque eredi di due matrimoni. Marina e Pier Silvio, e lo conferma la sua lettera ai dipendenti Mediaset che è anche un prontuario auto-motivazionale, vogliono dimostrare a tutti e in particolare a loro stessi di riuscire a gestire un’azienda, che sono imprenditori oltre che fortunati rampolli. Questo è un obiettivo estraneo a Barbara ed Eleonora, mentre Luigi è impegnato, e pare serafico, con i suoi investimenti in società native digitali. Il racconto sentimentale è affascinante, appassiona il pubblico, gli spettatori e magari gli elettori. Il racconto cinico su Mediaset e la famiglia di B. è più sincero. Parla di una azienda che viene dal passato e non ha troppo futuro. Parla di una influenza politica che è condannata a implodere. Parla di antichi privilegi che sono destinati ad ammuffirsi. Parla di qualcosa che non esiste più. Parla molto dell’Italia.