Il Cavaliere, con le sue politiche e con la visione del mondo che rappresentava, è entrato nelle vene di milioni di cittadini. Ma i suoi governi non hanno risolto problemi con cui il Paese è ancora alle prese. Anzi, hanno alimentato una disuguaglianza crescente

Davanti alla morte ci sono soltanto rispetto e pietà. Da vivo, però, Silvio Berlusconi, di pietà ne ha suscitata poca. Altri sentimenti, semmai: ammirazione, invidia, entusiasmo, rancore. Silvio è stato tutto: genio e furbastro, imprenditore e politico, padre e amante, piduista ed europeista. Ha speso milioni per gli avvocati, qualche soldo anche per magistrati e parlamentari; è sempre stato convinto che con il denaro si potesse fare tutto.

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L’Espresso è stato un tenace avversario di Silvio Berlusconi sin dalla sua discesa in campo. Non gli ha perdonato niente e dedicato più di cento copertine. L’ex direttore Bruno Manfellotto ha ricostruito in questo numero le battaglie di quel tempo: «Da fuori ci accusavano di “accanimento giornalistico”, rimprovero diffuso e frequente sia da destra sia da sinistra», scrive.

«Una “fissazione”, coniugata per di più a previsioni puntualmente smentite: una decina di copertine, infatti, si ostinavano a dare Silvio sull’orlo di una crisi di nervi, magari finito, esaurito, battuto per sempre. E invece no, il berlusconismo, con la sua carica di “populismo scientifico” – come lo chiamava Claudio Rinaldi già a metà degli anni Novanta, dunque con grande anticipo sui tempi – era entrato nella pelle di milioni di italiani, o forse più semplicemente, più realisticamente, aveva esaltato e legittimato dati del carattere nazionale a lungo repressi, o nascosti, o autocensurati».

Già. Silvio Berlusconi non c’è più, ma il berlusconismo continuerà a circolare nelle vene di questo Paese. In fondo se oggi Giorgia Meloni è al governo è grazie al processo innescato proprio dal Cavaliere con il suo sdoganamento di Alleanza Nazionale al tempo guidata da Gianfranco Fini. Le sue televisioni hanno introdotto un modello di vita che per i più esisteva solo nello schermo, ma in tanti hanno finito per credere che quello che vedevano fosse possibile: la famiglia del mulino bianco ha avuto più effetto di un manifesto politico. In un certo periodo storico è stato il più votato, perché incarnava quello che molti italiani avrebbero voluto essere: furbi, ricchi, impuniti. E l’idea di trasformare i telespettatori in consumatori e poi in elettori di chi altri è se non sua?

Ha reimpaginato un quadro politico bombardato da Tangentopoli riuscendo a riproporre vecchi paradigmi su nuovi spartiti. Ma poi è andato avanti con le sue idee neoliberiste, con il primato del privato sul pubblico, con la convinzione di essere inseguito da fisco e magistrati («È moralmente accettabile non pagare le tasse», si lasciò sfuggire o forse se lo fece sfuggire). E alla fine, tra mille processi, cavilli, legittimi impedimenti, prescrizioni, l’unica condanna l’ha avuta proprio per evasione fiscale. Però non era in grado di dare risposte adeguate ai problemi sociali e infatti l’Italia di oggi è soprattutto figlia delle sue politiche con i ricchi sempre più ricchi e i poveri più poveri. E il Pride ci ricorda quanto sia ancora necessario lottare in difesa dei diritti.

Berlusconi è stato un personaggio del nostro tempo che ha diviso l’Italia e non capiva perché l’altra metà non lo amasse. Però l’Italia che lo ha amato, oggi al governo, poteva risparmiarsi il lutto nazionale. Al netto di terremoti, alluvioni e stragi è stato proclamato solo per tre persone: Karol Wojtyla, Giovanni Leone e Carlo Azeglio Ciampi, un Papa diventato santo e due presidenti della Repubblica. Mai per un capo di partito o un semplice presidente del Consiglio. Per intenderci né per Cossiga o Andreotti, né per Berlinguer o tanto meno Craxi.