La più aggressiva è Giorgia Meloni: tra lutti nazionali, riforme della giustizia (mai riuscite al Cav) e l’idea dell’anno zero, ha cominciato ad appropriarsi dello spazio dell’ex Fi. La tallona Matteo Salvini, con meno speranze. Matteo Renzi, ex “royal baby” di Arcore, ha già esagerato (come al solito)

Lei, Giorgia Meloni, ha già cominciato ad appropriarsi dello spazio politico, a cercare per la sua leadership un’ampiezza maggiore di quella ex missina: con una riproposizione in Consiglio dei ministri della riforma della Giustizia che ha del celebrativo ma anche del grottesco (perché a Berlusconi mai riuscì), con funerali di Stato e tre giorni di inedito lutto nazionale, con l’idea che «siamo all’anno zero» e addirittura con la proclamazione del Cavaliere come una sorta di antesignano di tutti gli underdog, quindi in pratica suo diretto ascendente, proprio nel giorno delle esequie al Duomo di Milano. Lui, Matteo Salvini, la segue a ruota: copiose lacrime, post nostalgici, proclamazioni di amicizia e spazio nella Lega pronto per quello che l’ex ministro Claudio Scajola definisce correttamente il «rischio del fuggi fuggi» da Forza Italia, partito di lutto e di agitazione (vedasi l’ufficio di presidenza che si è tenuto a 30 ore dalla morte del grande capo, per questioni di soldi e fideiussioni ma anche di nomine a matrice Marta Fascina). L'altro, vale a dire Matteo Renzi, già battezzato “royal baby” di B. ai tempi del Patto del Nazareno, è stato il più lesto a lanciare la sua Opa, per quanto la sua solita ossessiva invadenza (interviste, televisioni, social) non aiuti la credibilità dell’operazione di un Terzo polo che diventi casa degli ex forzisti, traghettamento che per omogeneità politica l’ex premier da Rignano sull’Arno sarebbe il più adatto a giocare.

 

Il “Succession” della politica italiana è già cominciato, nel giorno stesso della scomparsa del Cavaliere, proseguirà a lungo e non c’è da stupirsene. È una partita politica fondamentale, per gli assetti complessivi del Paese, e nello stesso tempo unica nel suo genere: i principali leader attuali sono tutti in un modo o nell’altro figli di Berlusconi. Cresciuti fin da bambini - come emerge anche dai dettagli delle loro biografie - nel mondo del Cavaliere, nei confini e nell’immaginario costruito da lui con le televisioni commerciali, ancor prima che negli orizzonti politici disegnati dall’imprenditore disceso in campo dal 1994 in poi.

 

Giorgia Meloni ha raccontato ad esempio nella sua autobiografia (“Io sono Giorgia”) che nel 1982 a cinque anni con la sorella maggiore Arianna vedeva in televisione il cartone animato “Candy Candy”, all’epoca trasmesso dalle reti Fininvest, nel momento in cui andava a fuoco la sua cameretta di bambina nel quartiere Camilluccia a Roma. Il futuro segretario della Lega Matteo Salvini fu concorrente di “Doppio Slalom” nel 1988 a 15 anni, quando faceva la quinta ginnasio al liceo Manzoni di Milano, e del “Pranzo è servito” a 21, primo anno di università. Il futuro rottamatore Matteo Renzi fu campione con Mike Bongiorno della Ruota della fortuna a 19 anni, nel 1994: subito dopo essere andato a portare aiuti con gli scout in Jugoslavia vinse fra l’altro degli elettrodomestici, per di più della Whirlpool (ricorso storico: l’intera vicenda della vertenza sindacale ebbe inizio di fatto nel 2015, sotto il suo governo). Tracce di una infanzia nel segno di Berlusconi si ritrovano persino in Elly Schlein, classe 1985, l’unica che per ragioni generazionali si trova oltre i confini della diretta affiliazione o controaffiliazione, in qualche modo persino oltre l’anti-berlusconismo (aveva 5 anni ai tempi della legge Mammì, 8 anni quando fu trasmesso il video de «l’Italia è il Paese che amo»): “Occhi di gatto”, la sigla del cartone animato «femminista» che la segretaria del Pd ha cantato e ballato durante la campagna delle primarie, è un altro tipico prodotto degli anni Ottanta e del berlusconismo incanalato e ritrasmesso dal contenitore pomeridiano “Bim bum bam”.

 

C’è insomma, soprattutto a destra ovviamente, una scenografia che va costruita da capo, adesso che per la prima volta manca il regista che la ideò. Ecco perché l’aria da «anno zero» e «tutto da ricominciare». Perché c’è anche una tradizione da sussumere e consolidare: significa voti, un’area importante di consenso, molto più che un personale politico ormai in libera dispersione, appena un gradino sotto Antonio Tajani. E anche questa procedura in Fratelli d’Italia è già cominciata. «Silvio Berlusconi ha evitato un grande paradosso: che i comunisti sconfitti dalla storia trionfassero in Italia dopo aver cambiato nome. Una grande anomalia che non è avvenuta solo per la bizzarria di Berlusconi», ha voluto dire il fedelissimo meloniano Giovanbattista Fazzolari nel giorno della morte del Cavaliere, presentando a palazzo Wedekind il libro dell’ex capo di gabinetto di Mario Draghi, Antonio Funiciello (e forse ignorando di dialogare con precisamente un ex giovane militante del Pds). Le stesse parole di Fazzolari ha poi usato Giorgia Meloni, celebrando sul “Corriere della Sera” il vincitore che nel 1994 «ha impedito che i post-comunisti prendessero il potere» e soprattutto sottolineando che Berlusconi «faceva parte della borghesia imprenditoriale di Milano non per eredità e lignaggio, ma per capacità e intraprendenza» e come la sua empatia con gli italiani dipendesse dal fatto che lui era «uno di loro, uno che ce l’aveva fatta e che non apparteneva a quei mondi esclusivi e inaccessibili, tipici delle storiche famiglie influenti italiane».

 

Una caratterizzazione del Cavaliere molto vicina a quella che Meloni ha fatto di se stessa nel discorso di insediamento al governo, quando a ottobre scorso ha raccontato alla Camera il suo percorso da «sfavorita». E che serve ad accentuare quel che i due hanno in comune (e che Salvini non ha): un sapiente mix di populismo e postura istituzionale che li rende capaci di piacere alla gente, e nello stesso tempo di dialogare con l’élite.

 

Sempre a proposito di Meloni e Berlusconi, vale la pena sottolineare però che in questi giorni, ricordando le telefonate e i complimenti del Cavaliere, la premier ha fornito un ritratto molto diverso del loro rapporto, rispetto alla descrizione che a suo tempo fece in “Io sono Giorgia”: «Ho sempre avuto con il Cavaliere un rapporto franco e leale e ho di lui una grande considerazione, ma la mia storia appartiene a un mondo che lui non ha mai capito davvero», scrisse la premier nella sua autobiografia: «Io, per Berlusconi, sono sempre stata una diversità antropologica difficile da accettare completamente, sia come persona, sia come esponente di una cultura politica altra. Alleati leali ma spesso distanti nel modo di concepire il senso della politica». Una diversità antropologica, oltreché politica.

 

Questa distanza, che adesso l’opportunità consiglia di affievolire, è probabilmente alla base di un rapporto tutto sommato sereno di Meloni nei confronti di Berlusconi: e forse è l’unico caso in cui ciò è accaduto, nel panorama dei cosiddetti padri politici della leader di Fratelli d’Italia che per il resto è piuttosto turbolento. Basti pensare al vicepresidente della Camera Fabio Rampelli, che la accolse nel gruppo dei Gabbiani di Colle Oppio, la volle candidata alla provincia di Roma alla fine degli anni Novanta, ma è stato da lei escluso da qualsiasi ruolo di governo. O a Gianfranco Fini che la indicò come vicepresidente della Camera e poi ministra della Gioventù, ma che nonostante tutto resta anche adesso ai margini dell’attività della destra meloniana.

 

Anzi, il passaggio di stato che arriva con la fine di Berlusconi è destinato ad aumentare la distanza tra l’ex Terza carica dello Stato e la leader di Fratelli d’Italia. Ostinatamente fuori dal coro degli incensatori postumi del Cavaliere, Fini da leader di An immaginava una destra radicalmente non berlusconiana, piuttosto diversa da quella che sta cercando di mettere insieme Giorgia Meloni.

 

Lei, al contrario, si propone come una continuazione con altri mezzi di quel percorso: il progetto di sommare in Europa i conservatori ai popolari ne è uno specchio; la stessa somiglianza nella sigla del partito (FdI-FI) tradisce la tentazione di una continuità programmatica; così come i tanti proclami sul «non danneggiare chi vuole fare» e sul cosidetto «pizzo di Stato» svelano un atteggiamento verso l’imprenditoria assai distante dalla destra sociale e, per converso, non molto diverso da quello del Cavaliere e del suo «non mettere le mani nelle tasche degli italiani». Torna, in questo senso, anche un imprinting generazionale, in qualche modo perfettamente riuscito: da “Candy Candy” a «Meno tasse per tutti». C’è da dire peraltro che, a proposito di eredi, proprio Berlusconi è paradossalmente colui che si è dimostrato il più sofferente per l’ascesa di Giorgia Meloni: lo testimoniano i giorni a ridosso della formazione del governo, quando lui fece letteralmente di tutto – dal filoputinismo al «vaffa» scandito in Senato con Ignazio La Russa, fino ai mancati voti azzurri per eleggere il presidente di Palazzo Madama - per mandare all’aria quella leadership, così diversa eppure così simile alla sua. Fu fondamentale, in quel passaggio, anche la funzione di reciproco elemento di stabilità giocato con la Lega di Matteo Salvini. Un equilibrio a sua volta compromesso già nelle scorse settimane (il ritorno della questione Metropol, le distanze in Europa, le polemiche sulla designazione del ministro Musumeci come commissario per gestire il post alluvione in Emilia-Romagna) che adesso, passati i salamelecchi e le celebrazioni, è destinato a peggiorare. Con più turbolenza di prima.