La vita della scrittrice inglese riscritta alla luce delle sue opere, viene ridotta ad antenata della generazione Z. Con tanti saluti alla complessità

La vita di Emily Brontë come un romanzo di Emily Brontë. Gli anni che precedettero “Cime tempestose”, uno dei titoli più celebri e tuttora controversi dell’Ottocento, come una specie di prova generale dell’amour fou tra Heatcliff e Catherine. I rapporti così complessi che si intrecciavano in quella famiglia numerosa e infelice, segnata dalla morte precoce della madre, come camera di incubazione di quel libro eccessivo e crudele, rifiutato dai contemporanei ma esaltato dai surrealisti.

Un romanzo «brutto, volgare, pieno di egoisti che pensano solo a se stessi», come sintetizza in apertura l’invidiosa Charlotte (Alexandra Dowling), autrice di “Jane Eyre”.

Anche se le due sorelle di Emily, la repressa Charlotte e la scialba Anne (così almeno le vede il film), sono poco più che comprimarie. Mentre massima importanza, nella prima regia di Frances O’ Connor, assumono il fratello Branwell (Fionn Whitehead), pittore fallito, oppiomane e alcolista. E soprattutto il giovane curato Weightman (Oliver Jackson-Cohen), brillante predicatore con cui Emily (Emma Mackey, la Maeve di “Sex Education”) conoscerà la passione e la disperazione. Portando definitivamente questa biografia immaginaria dell’autrice di “Cime tempestose”, peraltro non priva di slancio nella prima parte, sul terreno della facilità e della banalità.

Superfluo precisare che Weightman è una figura storica, mentre della passione non si hanno notizie. Ma tutto “Emily” funziona così. Piegando, adattando, deformando a piacere date, fatti, rapporti (il padre delle Brontë, ad esempio, non fece mai un pubblico elogio di “Cime tempestose” davanti a Emily perché seppe che lo aveva scritto solo dopo la sua morte, nel 1848). E non in nome di una qualche licenza artistica, ma semplicemente per rendere queste vite e questa epoca così remote, logiche, scorrevoli, compatibili con i gusti e la mentalità oggi dominanti.

Se Emily ha scritto “Cime tempestose”, insomma, deve aver vissuto qualcosa di simile. Come se immaginazione (spesso) non facesse rima con privazione. Sappiamo che ogni film in costume riflette il presente.

Ogni rappresentazione del passato elabora figure e tensioni della propria epoca. Il problema è che questo principio oggi dilaga. Nessuno dissimula più o meno abilmente (e creativamente) il dialogo tra ieri e oggi. Al contrario, la rilettura attualizzante e disinvolta di miti e icone della nostra storia sembra diventata l’unica chiave possibile per rievocare quelle figure. Con tanti saluti alla complessità. Ridotte ad antenate della generazione Z, le sorelle Brontë viaggeranno meglio. Ma perdono fascino, peso, incisività. In sala dal 15.

 

Emily
di Frances O’ Connor

Gb-Australia, 130’

 

*************

AZIONE!
Non perdete “Animal House”, la commedia goliardica che nel 1978 lanciò John Belushi, di nuovo in sala. Non è certo il miglior John Landis, ma è in versione originale e integrale (la tv impose vari tagli). E vi metterà voglia di riscoprire tutto Landis, a Roma oggetto anche di una miniretrospettiva organizzata dal Piccolo America.

E STOP
No, le piattaforme no! Dopo l’esilarante ceffone a Netflix, Nanni Moretti va su Prime Video con ben 8 titoli, da “Palombella rossa” a “Tre piani” passando per “Caro diario”, “Aprile”, “Habemus Papam”, “Mia madre” e altri. Fa bene: produrre è una cosa, distribuire un’altra. Anche se forse non si vedranno in 190 paesi.