La trilogia di culto “Ritorno al futuro”, la malattia, la voglia di resistere. In un documentario la vicenda dell'attore: “Non mi fa impressione rivedere la mia fatica per la malattia, ma mi colpiscono gli sforzi che fa chi mi ama”

«A 29 anni mi è stato diagnosticato il Parkinson. “Ma sapete con chi state parlando? A me non può prendere”, risposi ai medici. Avevo paura che avrei perso tutto e la sensazione che fosse il prezzo cosmico da pagare per il mio enorme successo». A parlare è Michael J. Fox, oggi 61 anni, nel presentare “STILL: la storia di Michael J. Fox”, il notevole documentario diretto dal premio Oscar Davis Guggenheim, dal 12 maggio su Apple TV+. Dall’altra parte dello schermo – l’incontro ristretto con i giornalisti internazionali avviene via Zoom - appare provato, ma pieno di entusiasmo.

 

Lo stesso che l’attore di “Ritorno al futuro” aveva da bambino: «Dall’età di due anni in poi non riuscivo a stare fermo, anche se ero il più piccolo di tutti. Anche a scuola ero il più basso, una sorta di elfo carino». Questo non gli impedì di affermarsi a Hollywood e diventare protagonista indiscusso di film cult come la trilogia di “Ritorno al futuro”. Ne parla con un orgoglio luminoso, sdrammatizza quando affronta argomenti più tristi chiosando con un «Succede», stessa risposta che nel film dà al suo bodyguard dopo l’ennesima caduta. Quelle di oggi, dice, non sono poi così distanti da quelle di ieri, quando «mi vedevo su tutte le copertine, ma nessuna di quelle rappresentava il mio vero io».

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A che punto sente di essere in questo suo viaggio tra autobiografia e testimonianza dopo quattro libri e, adesso, un film in cui si racconta in prima persona?
«Il film è molto di più rispetto ai libri. È un viaggio, con immagini incredibili. Non è “confinato” solo ai libri, per quanto gran parte delle informazioni vengano da lì».

 

Com’è stato tornare a percorrere la sua vita anche nei momenti più complessi?
«Avendone già scritto parecchio ho avuto tutto il tempo per riflettere e sviscerare ogni cosa mi sia capitata nella vita. Ma non mi ero mai rivisto sullo schermo: non ero abituato a una telecamera che mi riprendesse di continuo, e vedere quelle immagini all’inizio è stato uno shock anche per me. Poi con Davis Guggenheim, che è un genio e ha fatto un lavoro pazzesco, ci siamo subito detti che non avremmo voluto censurare nulla, neanche le mie cadute».

 

Che cosa le ha fatto più effetto vedere?
«Non i miei struggimenti per la malattia, ma gli sforzi che fanno ogni giorno quelli che mi amano per tenermi vivo e non farmi sentire solo ad affrontare tutto questo. Mia moglie (Tracy Pollan, ndr) è un miracolo, come i miei figli: vedere quanto mi appoggi su di loro e quanto mi diano ogni giorno è stato emotivamente forte. Sarà che la nostra famiglia si basa su un’onestà assoluta: sono sempre stato aperto e sincero con loro su tutto, e loro oggi anziché compatirmi ridono insieme a me».

 

Se potesse tornare a un momento della sua vita quale sarebbe?
«Un giorno mio padre mi chiese: “Sei sicuro che fare l’attore è quello che vuoi veramente?”. Risposi “Più di tutto”. Così mi disse: “Se vuoi fare il boscaiolo, allora dobbiamo andare in quella maledetta foresta”, e partimmo per Hollywood. Era da pazzi, specie per uomo scettico e pragmatico come lui. Poteva dirmi di no, e avrebbe bloccato per sempre i miei sogni. Invece mi ha dato una possibilità. Non lo dimenticherò mai, poco dopo è venuto a mancare. Sei mesi dopo la nascita di mio figlio Sam, per l’esattezza. Ecco, se ne avessi il potere, tornerei a quando lui era ancora in vita».

 

Nel film racconta le difficoltà degli inizi a Hollywood, le paghe basse, le diffidenze perché non rispondeva all’immaginario comune…
«Dentro di me mi ripetevo: “Posso essere più alto, posso essere più grande: lasciatemi recitare e posso essere tutto quello che volete”».

 

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L’ha dimostrato firmando performance rimaste nel cuore del suo pubblico, con cui ha fatto coming out sulla malattia quando le pasticche e gli oggetti tenuti in mano mentre recitava si sono rivelati insufficienti a mascherare il tremolio.
«Sono stato riempito di affetto, in quello che era il momento più buio della mia vita».

 

A un certo punto confessa di aver ceduto alla dipendenza da alcol, che a sua volta dipendeva dalla paura. Che cosa o chi l’ha salvata?
«La mia famiglia. Mia moglie alla diagnosi mi sussurrò nell’orecchio: “Nella buona e nella cattiva sorte”. E i miei figli sono fantastici, mi dicono: “Papà, ma la smetti di muoverti così tanto?!”».

 

Nel film, come adesso che ne parla, colpisce il suo prendere ogni cosa, anche la più negativa, con una certa ironia. Come fa?
«Sono sempre stato così, in ogni situazione mi chiedo puntualmente quale sia la parte divertente. C’è sempre, anche in quelle più tragiche: essere tristi porta sempre più giù, ridere dà energia, consente il rilascio di endorfine. L’ho imparato recitando: d’un tratto il pubblico emette un rumore improvviso, involontario e contagioso. È il potere della risata, e fa bene a tutti».

 

Guardando alla sua carriera, segnala “Ritorno al futuro” come l’esperienza che più di tutte ha segnato la sua vita, non solo professionale.
«Fu una svolta vera, un gigantesco momento fondante della mia vita. Ho lavorato con persone incredibili in un progetto straordinario di cui conserverò per sempre il ricordo».

 

Nel parlare di come da attore abbia avuto la chance di fuggire da sé stesso calandosi per un po’ nei panni di qualcun altro, dice di dovere molto a certi suoi personaggi oggi iconici, per la forza che le hanno trasmesso.
«È così, forse la tenacia di oggi mi viene anche da loro. Interpretarli mi ha richiesto un certo livello di abbandono e la consapevolezza di non poter dar loro nulla se non una certa dose di verità. Ci ho messo tanto di mio, ho dovuto fare un grosso lavoro su chi fossi e chi non fossi veramente».

 

Dica la verità, Marty McFly di “Ritorno al futuro” un po’ le somigliava.
«Era pazzo, usava lo skateboard e suonava la chitarra. Ci ero vicino, sì. Ma allora pensavo solo a giocare, recitare e poi ancora giocare»