Tra il 2021 e il 2022, con la pandemia che ha fatto da detonatore, oltre tre milioni di italiani hanno lasciato il lavoro. Al netto dei licenziamenti, molti hanno trovato un’altra occupazione, spesso part-time. Ma sono anche tanti quelli che hanno deciso di dire basta a condizioni inaccettabili

«Nella vita ci devono essere l’amore e il lavoro», diceva Sigmund Freud. In questa fase storica – dopo la pandemia e con una guerra che angoscia – sembra prevalere il primo. Almeno stando alle macroscopiche cifre della “Great resignation”, dai 40 milioni di americani che hanno lasciato il lavoro fra la primavera del 2021 e quella del 2022 in coincidenza con la ripresa economica dopo il Covid, fino ai 3.322.000 italiani, il 36% in più dei dodici mesi precedenti.

 

È quest’ultimo, fornito dall’Osservatorio sul precariato dell’Inps, il dato più sorprendente. È vero che in questa cifra rientrano i licenziamenti (poco più di 400 mila) che erano stati congelati durante la pandemia, ma il fenomeno è comunque senza precedenti. Che fine ha fatto l’Italia del posto fisso, dei concorsi iperaffollati, della peggior disoccupazione del G-7? L’Italia delle raccomandazioni e delle clientele?

 

«Non restiamo agganciati a vecchi stereotipi», avverte l’economista Innocenzo Cipolletta, che nella sua lunga carriera è stato tra l’altro direttore generale della Confindustria. «Certo, non è come in America dove è facilissimo cambiare occupazione, ma il mercato del lavoro in Italia è migliorato, è diventato più efficiente e flessibile. E intanto le aziende si sono organizzate, a partire dalle maggiori, per offrire condizioni di lavoro più sopportabili e adeguate ai tempi. Rimane il problema dei bassi salari privati e pubblici, ma questa è una realtà difficile da scardinare».

 

Insomma, non c’è solo il lavoro, ci sono la famiglia, la vita privata, lo smart working. E il basso salario è, in Italia come in America, solo uno dei motivi della “grande dimissione”. «È come se l’esperienza del tutto inusitata del lockdown, visto che ha dato a tutti più tempo per riflettere – spiega Domenico De Masi, padre nobile dei sociologi del lavoro italiani – abbia acceso un faro sulle insoddisfazioni, le frustrazioni, i cattivi rapporti con i capi, tutto quello che non andava nel lavoro, e abbia fatto dire: ma sì, corro il rischio di lasciarlo questo posto». E poi, sorpresa nella sorpresa, quasi tutti ne trovano un altro, di lavoro: la disoccupazione, comunica l’Istat, è scesa dal 10,1% dell’inizio del 2021 all’8% del febbraio 2023.

 

È aumentato però anche, pessima notizia per i conti pubblici, il numero dei pensionati, visto che in tanti hanno colto l’occasione per chiudere anticipatamente l’esperienza lavorativa, elemento centrale della “grande dimissione”: «Ci stiamo avvicinando pericolosamente, anzi secondo l’Ocse l’abbiamo già raggiunto, al rapporto 1:1, un lavoratore per ogni pensionato, quando negli anni ’60 il rapporto era 1:6», commenta Alessandro Rosina, ordinario di Demografia e Statistica sociale alla Cattolica.

 

«L’invecchiamento della popolazione, se significa allungamento delle aspettative di vita, è un aspetto della crisi demografica che in Italia è peggiore degli altri Paesi industriali. Gli under 30 sono il 27% della popolazione: al censimento del 1951 erano il 52%. Il numero di chi ha fra i 30 e i 34 anni è di un terzo inferiore ai cinquantenni: nello scenario “mediano” dell’Istat la popolazione diminuirà di 5 milioni da qui al 2050, da 60 a meno di 55 milioni, ma gli ultra 65enni saranno cinque milioni in più». Un trend che non accenna a migliorare: «Il tasso di fecondità per donna resta di 1,2 bambini, lontano dal tasso di sostituzione che è di almeno 2». L’Istat si spinge allo scenario a lungo termine: se non si invertirà la tendenza agevolando la maternità con strutture adeguate, gli italiani saranno 41 milioni nel 2070.

 

Qual è il nesso fra il decremento demografico e il fenomeno della “resignation-Italian style”? «Semplice», risponde l’economista Giampaolo Galli, direttore dell’Osservatorio sui conti pubblici. «Se prendiamo la forza lavoro da 24 a 65 anni, gli ultra 65enni sono sempre di più, ma quanti compiono i 24 anni sono sempre meno. Così, ci sono meno giovani che si affacciano sul mercato a contendersi un posto, e quindi per tanti giovani o non giovani che un posto già ce l’hanno vale la pena gettarsi nella mischia e provare ad agguantare una posizione che si ritiene migliore appena se ne intravede la possibilità».

 

Ma è proprio il concetto di “migliore” che sta cambiando: «I datori di lavoro – si legge in uno studio della McKinsey – devono rivalutare le loro offerte se vogliono trovare dipendenti veramente motivati e leali. Devono inserire componenti come la flessibilità e lo smart working, la vera scoperta di questi anni, insomma reinventarsi la possibilità di impiego presso di loro: fra i dipendenti che sono usciti volontariamente, il 47% sceglie di rientrare nella forza lavoro, ma solo il 29% ritorna alle tradizionali funzioni a tempo pieno». Per McKinsey, il 40% dei lavoratori nei Paesi industrializzati ha pensato, o lo ha fatto, di cambiare lavoro in questi anni atipici. Se prima veniva accettato il pendolarismo anche estremo, o l’impossibilità di lavorare da casa, ora è cambiato tutto: il lockdown è stata una sorta di epifania.

 

L’Italia è uno dei sei Paesi-campione di McKinsey, in cui questo fenomeno è più avvertito. «A ben guardare, il numero di dimissioni volontarie – ha scritto sulla voce.info Francesco Armillei, economista della Bocconi – può essere l’indicatore di un mercato del lavoro in salute. E addirittura come un fattore di miglioramento in un sistema economico se la riallocazione che segue le dimissioni comporta un aumento di produttività». Di fatto, persino nella possibilità di “mettersi in proprio” come sbocco finale delle dimissioni, con tutte le incognite che ciò comporta (malgrado le agevolazioni fiscali sempre più larghe per le partite Iva), il nostro Paese è fra i più vivaci.

 

Ma dietro il fenomeno della “grande dimissione” si agitano come in un mixer problemi profondi e strutturali della società italiana, dal salario minimo («Noi abbiamo ancora oltre tre milioni di persone non coperte da contratti nazionali», non si stanca di ammonire anche dalle colonne di questo settimanale Carlo Cottarelli) fino alla necessità di integrare un numero di migranti superiore a quello attuale.

 

«L’importante è non considerare chi ha scelto di lasciare il posto come uno sfaticato o un rinunciatario», avverte Daniele Checchi, già capo ufficio studi dell’Inps e oggi docente di Economia politica alla Statale di Milano. «Prendiamo il reddito di cittadinanza, che con i suoi 6.000 euro all’anno non è competitivo neanche con il meno pagato dei lavori “veri”. Certo, la minaccia dell’integrazione al nero è sempre presente, però ipotizzare che dietro la “grande dimissione” ci sia un recondito tentativo di accedere al RdC mi sembra inappropriato. C’è invece solo un fiero e reale desiderio di migliorare la propria posizione professionale».

 

Comune all’Italia e a tutto il mondo, c’è una considerazione che forse è la più sottile e riporta al problema iniziale. Ce la suggerisce Robert Wescott, che è stato a capo degli economisti di Bill Clinton e oggi ha il suo think-tank a Washington: «Il Covid, che pure ha portato tragedie immani (un milione di morti negli Usa, ndr) ha permesso a tante persone di riflettere sulla loro condizione, perché gli indennizzi e i sussidi di disoccupazione almeno in America sono stati particolarmente generosi. Chi era più vicino all’età del ritiro ha tesaurizzato i suoi fondi pensione, e non a caso sono stati anni di Borsa sui massimi, ma anche chi apparteneva alle classi più svantaggiate ha avuto tempo e attenzione per ripensare alle proprie condizioni di lavoro. E in tanti casi ha detto: ora basta».