Immagini d’archivio un tempo proibite, spot pubblicitari, frammenti elaborati per reinventare film. A Roma “UnArchive/Found Footage Fest”, rassegna imperdibile

Se i film fossero oggetti matematici quello che si apre il 3 maggio a Roma sarebbe un festival al quadrato. I titoli selezionati dai direttori artistici, Marco Bertozzi e Alina Marazzi, non si compongono infatti di immagini girate per finire proprio in quel film e raccontare proprio quella storia, ma sono elaborati partendo da ciò che in gergo si chiama “found footage”. Brani estratti da altri film o da materiali d’archivio, documentari, super 8 di famiglia, immagini pubblicitarie, di propaganda, o magari proibite e censurate. Il “found footage” non ha limiti, come non li ha l’immaginazione degli autori che in questo nuovo mèta-genere trovano motivazioni estetiche e politiche per creare qualcosa di totalmente nuovo con immagini manipolate e immerse in un contesto diverso da quello originario.

[[ge:rep-locali:espresso:398465418]]

A produrre questo nuovo e insolito festival (dal 3 all’8 maggio fra il cinema Intrastevere, l’Alcazar, l’Accademia di Spagna e la Casa delle Donne) è non a caso l’Aamod, Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico. Un «archivio del presente più che del passato», come diceva il fondatore Cesare Zavattini evocando la “viva impazienza” di questi materiali, destinati a trovare significati nuovi. Di qui il titolo scelto dall’ideatore Luca Ricciardi, UnArchive/Found Footage Fest. “UnArchive” (ogni assonanza con la parola anarchia è benvenuta), cioè disarchiviare, sottrarre le immagini conservate e classificate con criteri razionali, scoprendovi dentro qualcosa di impensato. O addirittura di impensabile, perché non sono solo gli autori ad avere un inconscio, anche le immagini possono rivelare molto più di quanto sembrano contenere a prima vista. E oggi che gli algoritmi e l’intelligenza artificiale ci inducono a credere che tutto possa essere incasellato, riconosciuto e definito, questo è un principio scomodo quanto prezioso.

 

Ne sanno qualcosa anche mostri sacri come Werner Herzog e Aleksandr Sokurov, a cui il festival rende omaggio presentando fuori concorso due film di enorme interesse: l’ipnotico “The Fire Within: A Requiem for Katia and Maurice Kraft” e lo spericolato “Fairytale”. Il primo è una trascinante sinfonia visiva composta dal regista tedesco tuffandosi nelle 200 ore di pellicola lasciate dai due grandi vulcanologi francesi già incontrati nel suo magnifico documentario “Into the Inferno”, e uccisi nel 1991 da un’eruzione in Giappone. Mentre Sokurov all’inferno di Herzog preferisce il limbo della Storia dove, fra meschinità personali e orrori collettivi, si aggirano come anime in pena Stalin, Hitler, Mussolini e Churchill, ritagliati dai cinegiornali d’epoca e incastonati in un mondo a cavallo tra le carceri di Piranesi e il Dante di Doré, nonché doppiati in modo beffardo e inquietante da un Sokurov mai così disinvolto. La Storia è del resto una delle grandi protagoniste del festival accanto ai film più o meno fantasiosamente in prima persona (pensiamo soprattutto a “Gli ultimi giorni dell’umanità”, di Enrico Ghezzi e Alessandro Gagliardo, e a “Una claustrocinefilia” di Alessandro Aniballi, che potrebbero entrambi avere per sottotitolo “Autobiografia di uno spettatore”).

 

Chi conosce i lavori di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, o quelli di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, sa che esiste un fiorente filone di cinema dedicato a «interrogare le rappresentazioni del passato con l’intento di decolonizzare le narrazioni visive», per dirla con i due direttori di UnArchive, Marazzi e Bertozzi. E tra gli eventi annunciati ci sono due film destinati a modificare per sempre la nostra comprensione della Seconda Guerra Mondiale: “The Natural History of Destruction” dell’ucraino Sergei Loznitsa e “Three Minutes - A Lenghtening” dell’olandese Bianca Stigter. Ispirato fin dal titolo al capolavoro con cui a fine anni Novanta W.G. Sebald, ruppe il tabù che impediva ai tedeschi di ricordare i 600 mila civili morti e i sette milioni di sfollati provocati in 131 città dal tritolo degli Alleati, il primo assembla per 110 implacabili minuti immagini di devastazione recuperate in archivi inglesi e tedeschi. Città scheletrite, fabbriche di bombe e di aerei (in una di queste Wilhelm Furtwängler dirige con gesti robotici “I maestri cantori di Norimberga” per spettatori dal volto indescrivibile), i discorsi di Churchill e del generale Montgomery, la rabbia dei capi e l’incredibile compostezza degli sfollati. Il tutto senza una parola di commento, ma con tagli e attacchi precisi come un’autopsia. Per lasciare lo spettatore di fronte alla nudità dei fatti. Geniale, sconcertante, spesso incompreso.

 

Mentre “Three Minutes” ricostruisce poco a poco, come in un miracolo che si compie lentamente sotto i nostri occhi, la vita di uno shtetl nel 1939 partendo da un filmino amatoriale di ebrei polacchi che avevano fatto fortuna negli Usa e tornavano al paesello ben vestiti e armati di cinepresa. Chi erano tutti quei bambini e quegli adulti accalcati davanti all’obiettivo degli yankee, come si chiamavano, cosa accadde loro prima di finire sui treni per i lager, cosa ci dicono di loro gesti, berretti, abiti, espressioni? I fotogrammi si ripetono, si scovano i rari superstiti, appaiono nuovi particolari, il film diventa una detective story e insieme un saggio di microstoria, straziante e definitivo. Tre minuti e mezzo contro il buco nero della Shoah.