Uno voleva fare il jazzista, l’altro il calciatore. Lavorano insieme da sempre, anche sul nuovo film, La quattordicesima domenica del tempo ordinario. E ci raccontano gli esordi, il difficile rapporto con i salotti romani e l’avventura in Iowa

Il destino, a volte, è scritto sulla porta di un ufficio. DueA Film recita la targa della casa di produzione, nel quartiere Prati, dove le due “a” alludono agli Avati. Fratelli diversi: Pupi, 84 anni, regista prolifico, uno dei mostri sacri del cinema italiano, da sempre snobbato dall’intellighenzia di sinistra, criticato per uscite politicamente scorrette («Lucio Dalla diventò omosessuale dopo una cura ormonale, prima gli piacevano le donne», ha detto di recente in un’intervista a La Stampa, scatenando un putiferio); Antonio, 76 anni, produttore e sceneggiatore, abituato a faticare dietro le quinte, decisamente meno famoso del primogenito.

 

Non tutti sanno che da 55 anni Antonio e Pupi Avati lavorano insieme e hanno fatto fianco a fianco decine di film, molti dei quali con gli attori feticcio Diego Abatantuono e Carlo Delle Piane. L’ultimo, “La quattordicesima domenica del tempo ordinario” (con Gabriele Lavia, Edwige Fenech, Camilla Ciraolo, Lodo Guenzi), ora in sala, racconta con stile inconfondibile la storia di due amici, un grande amore, l’illusione del successo. Ambientato a Bologna, offre lo spunto per ripercorrere la storia della famiglia Avati, a cominciare dal padre. «Cesare Bocci è il solo attore italiano che mi ricordi nostro padre, sia per l’avvenenza che per una sua misteriosa autoironia», dice Pupi Avati seduto alla scrivania del suo ufficio, costellato di premi e foto. Di fronte a lui il fratello Antonio, capelli bianchi arruffati, affabile. «Era un bell’uomo, coi baffi e gli occhi chiari, elegante, simpatico. Faceva ridere le donne e ingelosire nostra madre. Quando è morto ero piccolissimo», aggiunge.

 

Il padre era borghese, cattolico, titolare di un negozio di antichità, la madre proveniva da una famiglia contadina, socialista, ma era molto cattolica, soprattutto dopo la morte del marito. «A casa, a Bologna, le domeniche sapevano sempre di Peppone e Don Camillo», riflette Pupi. Un amore condiviso, quello per la madre, culminato dopo la sua morte nel 1999, quando i due fratelli aprirono un ristorante di cucina bolognese in sua memoria a Davenport, nell’Iowa: il Mama Avati’s Restaurant. «Quando veniva a trovarci in America, durante le riprese dei film, preparava tortellini e lasagne che facevano impazzire tutti. Glielo avevamo promesso e lo abbiamo fatto. Perdevamo 5mila dollari al giorno, abbiamo chiuso il locale e siamo tornati a fare solo film», racconta Antonio.

 

A proposito di adolescenza, i due fratelli coltivavano sogni diversi. Pupi aveva il chiodo fisso del jazz, suonava il clarinetto con la Doctor Dixie Band. «Il mio sogno era diventare un grande jazzista, in fondo lo è tuttora. E di battere Lucio Dalla», che diventò suo grande amico anche se contribuì, una volta entrato nel gruppo con il suo clarinetto, a infrangere le speranze del futuro regista. «Qualche giorno fa a Bologna ho ritrovato alcuni amici che mi hanno detto: “Il più bravo era Henghel Gualdi, il secondo Lucio Dalla, terzo tu”. In realtà non sono mai diventato un grande musicista: questa cosa ha segnato dolorosamente un pezzo della mia vita». Da ragazzo Antonio, il più bello tra i due, aveva progetti comuni. «Volevo fare il calciatore. Giocavo a pallone e sono sempre stato un grande tifoso del Bologna», come testimonia la maglia della squadra incorniciata e appesa al muro nella sua stanza, tra memorabilia del cinema e gigantografie di John Fitzgerald Kennedy. «Pensavo di poter fare l’attore: ero piuttosto narcisista e forse anche portato», aggiunge Antonio, che con le ragazze aveva più successo del fratello.

 

Quando le strade dei due fratelli si sono unite, all’inizio non è stato facile. Dopo due clamorosi flop, l’aria cambia con il primo film di successo, “La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone” (1975), protagonisti Ugo Tognazzi, Paolo Villaggio e Delia Boccardo. Una collaborazione stretta anche tra Antonio e Pupi, che firmano insieme soggetto e sceneggiatura. Antonio, inoltre, è aiuto regista del fratello. «È stato un incontro magico con una persona che ci ha cambiato la vita: Ugo Tognazzi. Si candidò per la parte in virtù di un errore alla Feydeau, il copione finito in una valigia anziché in un’altra. Fu la prima esperienza con il cinema vero», dice Pupi. Come secondo aiuto regista c’era Ricky Tognazzi, il figlio del grande attore. «Eravamo spaventati dai professionisti romani, da Ugo in maniera particolare, che però aveva capito la situazione», sottolinea Antonio. Il fratello maggiore veleggia tra i ricordi. «Antonio aveva un ruolo psicologico fondamentale nei confronti di Ricky, che subiva la figura paterna così ingombrante».

 

I fratelli Avati hanno sempre girato al largo dai salotti del cinema romano. O meglio, sono stati loro a tenerli lontano. «Tuttora è così. All’inizio era diverso: Laura Betti ci portò a Giovanni Bertolucci, che a sua volta ci portò a Tognazzi. Eravamo attratti dalla terrazza romana di Laura Betti, frequentata da Pasolini, Moravia, Siciliano, Bertolucci, Bellocchio», racconta Pupi, all’epoca più mondano rispetto al fratello: «Poi mi sono accorto che mi condizionavano troppo. La mattina seguente ripetevo quello che avevano detto loro la sera prima, ero diventato un loro clone, avevo perso l’autenticità necessaria in questo mestiere».

 

In oltre mezzo secolo di collaborazione qualità e imperfezioni si intrecciano, cambiano nel corso del tempo. «Il più grande pregio di Pupi? Riesce a inventare storie del tutto diverse l’una dall’altra, anche se le ambientazioni si assomigliano». E il peggior difetto?: «È geloso, anche con me», sorride Antonio: «Lo è sempre di più con il passare degli anni, si attacca testardamente al lavoro». E com’è Antonio per Pupi? «All’inizio della nostra carriera avevamo sperimentato produttori non sempre trasparenti», conclude il regista: «Mio fratello invece è di una lealtà straordinaria, non mi ha mai né ostacolato né frenato. Il risultato è che abbiamo fatto anche film di grande insuccesso».