Ci sono gruppi strutturati come clan con leader e fini economici. Ma anche gruppi fluidi caratterizzati da disagio e rivalsa. Uno studio dell’Istituto di scienze forensi a Milano spiega le enormi differenze tra i fenomeni

Una realtà a due facce dove accanto a vere gang organizzate sul modello dei clan giovanili delle altre metropoli internazionali emerge un fenomeno diverso e più sfumato, definito bullismo da strada. È la fotografia aggiornata dell’universo, sbrigativamente liquidato dai media sotto l’onnicomprensivo cappello di “baby-gang”, della realtà minorile milanese scattata dall’Istituto di scienze forensi nel lavoro “Criminalità minorile, non solo baby gang. Analisi del fenomeno dello street bullying” nell’area metropolitana di Milano. L’Espresso ha potuto consultarla in anteprima. La ricerca evidenzia il fenomeno emergente dello street bullying. In qualche modo più fluido e per questo sfuggente e non meno insidioso delle baby gang vere e proprie.

 

I sodalizi organizzati, strutturati, hanno infatti caratteristiche precise: tre o più membri con un’età compresa tra i 12, sporadicamente anche al di sotto di questa soglia, e i 24 anni, un nome, simboli d’identificazione, dal modo di comunicare e di vestire. E soprattutto un leader oltre che un territorio da marcare e controllare, in rapporto ad attività delinquenziali che producono vantaggi economici. Elementi identificativi di un fenomeno che non si ritrovano nello street bullying, verso il quale la devianza può non corrispondere a quella normata dal codice penale.

 

Qui si tratta di gruppi di ragazzi che hanno come unico scopo quello di affermare la propria autorità attraverso la prepotenza, l’arroganza e a volte la violenza, senza alcun fine economico e senza un’organizzazione criminale alle spalle.

 

Distinguere è fondamentale: «Si rischia altrimenti di considerare tutti i comportamenti devianti, alcuni tipici tra gli adolescenti, come la provocazione nei confronti degli adulti o il poco rispetto verso l’autorità dei genitori o dell’insegnante, come necessariamente delinquenziali», spiega Hillary Di Lernia, responsabile del Centro di ricerca dell’Istituto di scienze forensi. In fenomeni come questi l’aspetto criminale è meno marcato e non ci sono le dinamiche da gruppo consolidato: «Nella stragrande maggioranza dei casi, infatti, ad agire sono gruppi fluidi, senza un leader e soprattutto senza alcun obiettivo economico», spiega Di Lernia.

 

In soccorso dell’analisi arrivano, del resto, anche i dati dell’ultima ricerca del 2022 del dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità. Smentiscono l’aumento di reati compiuti dai giovani. L’ultima ricerca del 2023 del dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità smentisce l’aumento di reati. Il numero di minorenni e giovani adulti in carico agli uffici di servizio sociale dal 2007 al 2022 è pressoché stabile (addirittura nel 2016 erano più dei 21.551 registrati nel 2022). Ciò non significa che non esista un problema sociale o che non esistano baby gang in Italia, bensì che la percezione del problema, a fronte di un allarme sociale indiscriminato, debba essere trattata in modo diverso. Conoscere, insomma, per comprendere e, se è possibile, intervenire in modo adeguato.

 

Durata complessivamente un anno – da aprile 2022 ad aprile 2023 – la ricerca condotta dal team dell’Istituto si è concentrata esclusivamente su Milano. Un territorio che nel 2022, secondo quanto evidenziato da uno studio de Il Sole 24 Ore realizzato sulla base dei dati forniti dal dipartimento di Pubblica sicurezza del ministero dell’Interno, è primo in Italia per criminalità, con quasi seimila reati ogni 100 mila abitanti. La ricerca ha indagato sul campo la situazione nelle nove circoscrizioni in cui è diviso il comune. Nel quadro restituito spicca la presenza di un gruppo in particolare, che sembra incarnare tutte le caratteristiche di una baby gang. Gli investigatori dei carabinieri del comando provinciale della città la identificano con il nome di Barrio Banlieue.

 

Composta da gruppi misti di ragazzi e ragazze, per la maggior parte provenienti da famiglie di migranti di cui sono la seconda generazione, con un’età media che oscilla tra i 15 e i 22 anni, con alcuni esponenti in età preadolescenziale (al di sotto dei 10 anni), la Barrio Banlieue controlla e opera in Zona 1, quella più centrale di Milano, esattamente nel punto nevralgico della città: il Duomo. La sua base si trova in Piazza dei Mercanti, già conosciuta per diversi episodi violenti di accoltellamenti e rapine per mano di giovani, oppure per la maxi-rissa che si è verificata tra 50 ragazzini nel giugno del 2021.

 

«A differenza di tutti gli altri gruppi di giovani che compiono atti criminali nelle diverse zone di Milano, la Barrio Banlieue incarna tutte le caratteristiche di una baby gang. Fin dai primi appostamenti, infatti, abbiamo potuto notare il coinvolgimento di adulti di oltre 30 anni, la presenza di un sistema piramidale e quindi di un leader, e soprattutto il fine economico, attraverso la redistribuzione del giro d’affari creato con la merce rubata e la vendita di droghe, che avviene sia all’esterno sia all’interno della fermata della metro Duomo», spiegano i ricercatori.

 

Ma non è tutto. Oltre a essere molto attenti a ciò che li circonda e a situazioni sospette nell’ambiente nella loro zona di azione, la Barrio Banlieue sembra tenere sotto controllo gli ingressi dell’entrata secondaria di una nota catena di fast food, proprio in piazza dei Mercanti. «Dopo aver visto che molti di loro stazionavano all’interno, abbiamo provato a entrare da quell’ingresso. Ma è accaduto qualcosa di strano: il bodyguard ci ha guardati e ci ha detto: non vi ho mai visto, incoraggiandoci a non entrare. Inoltre, una volta finiti gli appostamenti, siamo stati pedinati per una parte del nostro tragitto», racconta Di Lernia.

 

Se la Barrio Banlieu risulta una delle baby gang presenti a Milano, contestualmente sono diversi i gruppi di giovani ragazzi che acuiscono il fenomeno del bullismo da strada. Tra le zone più calde ci sono San Siro – un quartiere dalle due facce – Calvairate, Corvetto, Quarto Oggiaro, NoLo, Giambellino e Lorenteggio. Quelle zone in cui, come evidenzia la stessa ricerca, si riscontra una forte presenza di abitazioni Aler e di case occupate. In due parole, povertà e disagio sociale. «La precarietà delle condizioni abitative spinge i più giovani a cercare un luogo dove possa instaurarsi la socializzazione con i coetanei. E dato che ciò non può avvenire all’interno delle mura domestiche, la strada, o meglio il quartiere, assume una funzione formativa», sottolinea Di Lernia. A tal punto da incarnare un tratto distintivo, “familiare” con il quale identificarsi. Basti pensare che spesso i gruppi prendono il nome dal proprio quartiere di riferimento, della via, oppure ancora dal cap. Come nel caso di Z4, il gruppo di via Zamagna, una delle vie del quartiere San Siro considerate più problematiche. Per compiere atti criminali, i componenti decidono però di spostarsi al di fuori del proprio quartiere. Anche di poco, soprattutto dal momento che le criticità e il disagio «si scontrano quotidianamente con le condizioni di benessere e agio delle vie limitrofe».

 

È proprio la rabbia sociale, infatti, a guidare le azioni di questi gruppi. Una rabbia dettata «dall’eccessiva ricchezza circostante, da un senso di ingiustizia sociale» e che si scatena «verso coloro che non appartengono alla loro stessa comunità». La stessa collera che incontra don Claudio Burgio, collaboratore di don Gino Rigoldi come cappellano dell’Istituto penale minorile Cesare Beccaria di Milano e fondatore della comunità Kairos: «Accogliamo una cinquantina di ragazzi, la maggior parte dei quali arriva dal penale minorile. Nei loro racconti notiamo diverse forme di rabbia contro le istituzioni, l’avversione nei confronti dello Stato, delle forze dell’ordine. Questa rabbia si estende laddove lo Stato, per educare, sceglie la linea più repressiva. È come se volessero dire: esistiamo anche noi, abbiamo una nostra dignità e questa educazione di tipo punitivo non la riconosciamo più. Rifiutano l’esercizio dispotico di potere».

 

Tuttavia l’aggressività spesso non viene esercitata, ma solo esibita, specialmente sui social media e attraverso la musica, soprattutto di genere Trap. Su Instagram, TikTok e su YouTube circolano numerosi video nei quali vengono mostrate armi da taglio e da sparo, soldi e ci si esibisce in gesti che emulano le gang. «La musica viene usata come strumento di riscatto economico, sociale, d’immagine», continua don Claudio Burgio. «Non si tratta solo di una passione, ma di un mezzo di denuncia sociale, attraverso il quale consolidare e trasmettere al pubblico l’appartenenza al quartiere». Uno strumento per scagliarsi contro un sistema che non guarda al minore ma al reato. Per questo la stessa ricerca suggerisce approcci differenziati ai fenomeni che tengano conto delle possibilità offerte dalla giustizia riparativa, dalla scuola e dalle politiche giovanili che rispondano a esigenze reali.