Sull’inglese zoppica, ma è bravissimo a trovare sinonimi per i ritardi sul Pnrr. Ecco come l’ex delfino mancato di Berlusconi è diventato il gran ciambellano di Giorgia Meloni alla corte europea

Nell’inglese scarseggia, nei giri di parole no. «Sta nella modifica dell’obiettivo intermedio la salvaguardia dell’obiettivo finale». È la frase-chiave di un’epoca, la sintesi lattiginosa di un mondo, la quintessenza di un ministro: Raffaele Fitto. Il titolare degli Affari Europei e del Sud, ormai per tutti Mister Piano (o anche: «Mister piano piano»), l’ha piazzata nel cuore della sua ultima esibizione in Parlamento, 28 minuti sullo stato di salute del Pnrr, informativa invocata dall’opposizione e prontamente da lui trasformata in una specie di nenia ipnotizzante di parole che si doppiano, si rincorrono, si sovrappongono. La sua specialità. «Rimodulare», «superare», «condividere». Modificare, insomma. La salvezza, sua e di tutto.

 

Come per gli asili nido, sostiene il ministro: per farli bisognerà cambiare i piani (che li prevedono, 265 mila posti entro il 2025), bisognerà quindi in qualche misura non farli. Cambiare per rafforzare. Puro gattopardismo. La chiave del suo successo: se Raffaele Fitto fa il ministro di Fratelli d’Italia con Giorgia Meloni è perché ha saputo cambiare i suoi progetti (una volta puntava a diventare il delfino di Silvio Berlusconi, una volta il Cavaliere lo chiamava «un po’ una mia protesi», e chi se lo ricorda più), se farà il Commissario Europeo dopo Paolo Gentiloni come sogna da anni è perché ha saputo modificare ciò che era prima e saprà modificare anche al ribasso ciò che vuole adesso (da Bruxelles lo si vede più adatto a una delega tipo hobby e sport, che non agli Affari Economici, per dire). Una virtù democristiana: l’elasticità. È quella che l’ha salvato dalla sua prematura fine politica, dopo un giro al Parlamento europeo che ha dello spettacolare per abilità di ricollocazione, per portarlo adesso - come da apposito Dpcm - a diventare il gran ciambellano di un accentramento di poteri mai visto, in nome e per conto della leader per la quale vive in osmosi (Giorgia Meloni), essendo tra i pochi non ex missini che ne sanno subire senza problemi il fiato sul collo. Anche se alla fine con quali risultati è tutto da vedere.

 

Salentino, 53 anni, figlio di notabile democristiano nativo di Maglie, il paese di origine di Aldo Moro, consigliere regionale in Puglia con la Dc a 20 anni, assessore a 24, subito prima della nascita di Forza Italia alla quale aderì sin dall’inizio, Fitto è in effetti il terzo dei tipi di democristianità presente nel governo: il ministro della Difesa Guido Crosetto, democristiano evoluto, si comporta in modo tale che ormai si tende a dimenticare da dove proviene (sulla rete - se ne è lamentato lui stesso - gli danno in effetti del fascista); il vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani, democristiano devoluto, presenta non poche caratteristiche della casa pur avendo un altro percorso, e utilizza tali virtù per cause che lo trascendono; e infine c’è Fitto che, tra gli ex funzionari di Palazzo Chigi, viene definito «democristiano involuto» per via di una sapienza che sembra rinculare e che tende a portarlo al garbuglio.

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Esemplare a questo riguardo ciò che si intravede osservando dall’alto, nell’insieme, le sue trattative europee sul Pnrr: intrecciandosi le richieste di rinvio delle scadenze con le richieste di modifica della sostanza, si sta creando una matassa di obiettivi su cui paradossalmente pesa il negoziato in corso, talché più di un ministro non sa se mettere una pietra sopra a certe cose, o insistere (vale anche per gli asili nido, appunto).

 

Lunga carriera da giovane vecchio, europarlamentare per Forza Italia e governatore della Puglia ad appena 30 anni, Fitto in questa sua involuzione magari non ha fatto passi indietro: ma passi avanti neanche. E di questo tenta di fare una virtù. Con un sobbalzo sulla sedia si scopre ad esempio che l’argomento principe utilizzato in questi giorni per sminuire la portata dei ritardi del Pnrr, annegandolo nel mare dei ritardi italici, è lo stesso che utilizzava nel 2010, ma preso da un altro verso. Oggi infatti anche per sottolineare le responsabilità degli Enti locali, ricorda che l’Italia non è stata capace di utilizzare i soldi dell’Europa: dice ad esempio, previa ricognizione dei suoi uffici, che i fondi di coesione del 2014-20 sono stati utilizzati soltanto per il 34 per cento. Dunque non è colpa di questo governo, del Pnrr, sua. Tredici anni fa, quando era ministro per gli Affari Regionali del governo Berlusconi, utilizzava la stessa litania, ma contro i governatori: numeri alla mano, previa ricognizione dei suoi uffici, spiegava che i soldi c’erano ma non venivano utilizzati; meno del 40 per cento del Fas (Fondo per le Aree Sottoutilizzate) e ancora peggio per la coesione, che a metà del periodo preso in considerazione risultava all’epoca utilizzata per il 5-7 per cento. Ergo serviva una «riprogrammazione» dei fondi non spesi e auspicabilmente una maggior «flessibilità». Sembra di udire qualcosa di familiare?

 

Sono insomma lustri che Fitto avanza facendo leva su quel gigantesco cuscino di comodo che è la capacità dell’Italia di accumulare ritardi, o di non fare quel che dovrebbe, per poi magari trovare una mezza soluzione all’ultimo momento, che a quel punto invece che mediocre apparirà strepitosa. La famosa elasticità. Ed è forse proprio questo che ha fatto di lui l’uomo perfetto per Giorgia Meloni. Perfetto perché capace di gestire l’ingestibile, di continuare a farlo girare su sé stesso come il piattino di un giocoliere, anche senza minimamente risolverlo. A Fitto, con il recente decreto che rende operativa la nuova governance, sono infatti come si sa affidate le sorti del Pnrr - «il sacro Graal della ripresa italiana» l’ha chiamato Lucia Annunziata - perché a lui fa capo, anche politicamente, quella che nelle carte si chiama Struttura di Missione, ma che è in pratica una task force composta da 84 persone, e lo trasforma in un super ministro e, per suo tramite, trasforma Meloni in una super premier. Sempre che entrambi vogliano fino in fondo prendere sul serio questo ruolo, è chiaro.

 

Bisogna però dire che Giuseppe Conte fu trafitto per molto meno, all’epoca in cui su di lui volteggiava Matteo Renzi, in combutta con Luigi Di Maio e, per qualche misura, con Nicola Zingaretti. Era la fine del 2020 quando l’Eroe dei due mondi, che aveva portato miracolosamente a casa quello che all’epoca si indicava come Recovery fund, cominciò a pensare a come dovesse essere fatta la governance del Pnrr. E tutti inorridirono, dall’Europa in giù. Conte ipotizzava una cabina di regia, poi una governance a tre teste, sei commissari, trecento collaboratori. Troppo potere, si disse, troppa gente. Ora siamo a due teste, quattro Uffici dirigenziali, quattordici dirigenti, cinquanta impiegati e venti esperti. Sarà meglio o sarà peggio?

 

Superata, in ogni caso, la struttura a doppio bilanciamento pensata a inizio 2021 da Mario Draghi. Quella che collocava il cuore della gestione del Pnrr al ministero dell’Economia e la sua regolazione a Palazzo Chigi. E che in questi mesi era accantonata già nei fatti, visto che nei negoziati il peso del Mef, sotto la guida del leghista Giancarlo Giorgetti, è come alleggerito, se non dileguato, mentre Fitto con le sue competenze economiche che sono più o meno pari a quelle che riguardano la lingua inglese, si trovava a trattare con gli omologhi europei di Giorgetti, senza Giorgetti.

 

Nonostante tutto, quel che non riuscì a Conte potrebbe riuscire a Meloni, per tramite appunto di Fitto che con la premier condivise il tavolo dei ministri già tra il 2008 e il 2011. All’epoca nulla li univa se non la giovane età e una certa trincea antileghista (la destra italiana è tradizionalmente meridionalista), quella che dopotutto li unisce tuttora (neanche Fitto ha ottimi rapporti con Salvini). Basti dire, per stare alla distanza, che tra la fine del 2012 e nel 2013, quando Meloni fondava Fratelli d’Italia, Fitto provava ancora a scalzare Angelino Alfano dal ruolo di preferito di Berlusconi, e poi tentava invano di cavalcare ogni onda di dissenso interno che portasse a incarnare il nuovo nell’area forzista.

 

Per stare invece alla convergenza: la prima avvenne per le regionali pugliesi del 2015, quando Meloni e Fitto si unirono contro l’alleanza tra Lega e Forza Italia. Fu proprio in quell’occasione che l’ex ministro lasciò gli azzurri e, da mister preferenze a Bruxelles (quasi record con 284 mila), abbandonò i Popolari europei per entrare nel gruppo dei Conservatori e Riformisti, diventandone vicepresidente. Fu così che, quattro anni dopo, quando aderì ufficialmente a Fratelli d’Italia, portò il partito di Giorgia Meloni in quella collocazione europea che tanto si è rivelata poi azzeccata per gli obiettivi e le ambizioni della premier. Un insieme di intuizione politica e fortuna che però appaiono corredo un po’ misero di fronte al compito che si ha ora davanti.